Amour. Love. Liebe. In tutte le
sue declinazioni. Ma soprattutto attraverso il racconto dei corpi. E non solo
nel senso del coinvolgimento sessuale, come in Paradise:Liebe, dove il sesso
rappresenta una ricerca malata e disperata d’amore, ma perché la malattia dei
corpi, messa in scena in diversi film di questo festival, porta a galla la verità dei sentimenti più
profondi, le malattie dell’anima, a volte, o quella parte più intima e nascosta
che difficilmente riusciamo ad esprimere. Così per la figura del padre di Beasts of the
southern wild, così per la bella e brava Marion Cotillard in Rust& bones,
così, in maniera struggente, nel bel film di Haneke: Amour, appunto. La
sensazione è stata quella di spiare, senza accezioni negative, ma entrando in
punta di piedi, guardando da una porta appena socchiusa, la vita quotidiana di
una coppia benestante, di una certa età, che è legata da un amore profondo. La
malattia di lei entra nei gesti quotidiani, paralizza la scena (splendide
inquadrature fisse, ad incorniciare, attraverso le porte, questo scorcio di
amore). Di una grande eleganza e tenerezza le scene in cui George abbraccia Anne per
aiutarla a spostarsi dalla sedia a rotelle al bagno, al letto. Beh, il braccio
di lei intorno al collo, il trascinarla delicatamente di lui, dei gesto
fatti e ripresi così bene, mi sono sembrati
un momento di danza, quasi un accenno di
ballo tra marito e moglie. Riprese e toni asciutti, senza sbavature, senza
pietismi, senza sentimentalismi. Eppure, i tre quarti del pubblico (e parliamo di 2500
persone), erano lì che singhiozzavano
(piangere non sarebbe il termine giusto!), letteralmente e sonoramente. Perché
l’amore, davanti alla morte è potente, straziante, e il bellissimo racconto per
immagini di Haneke lo porta diritto al profondo di ognuno di noi, facendo
emergere, come un fiume in piena, attraverso quelle lacrime irrefrenabili, la paura e/o il ricordo della sofferenza . Quella di coloro
che amiamo, la nostra, il passato, o il timore per il futuro. Ma soprattutto il
confronto con qualcosa che possiamo rimuovere, ignorare, ma che fa parte della
vita e che sappiamo di dover affrontare, prima o poi: la morte. Nel film Haneke paga un piccolo tributo anche al cinema. Il
protagonista, che fa dei racconti il suo speciale strumento di sollievo per la
sofferenza della moglie, racconta di come, da bambino, un film gli avesse
provocato forti emozioni, e nel raccontarlo ad un conoscente, queste emozioni
fossero riemerse, senza riuscire a fermarle, proprio come è accaduto a me
davanti ad Amour. “Non ricordo quale fosse il film, ma ricordo
ancora le emozioni che mi aveva suscitato”. Non trovate che sia una splendida dichiarazione d’amore? La morte si ritrova, trattata anche in forma di commedia, in Granny’s mother, il film visto nel pomeriggio alla Quinzaine. L’ironia su un uomo che non riesce a
crescere, a scegliere tra la moglie e l’amante, tra una modernissima compagnia
di pompe funebri , dove i modelli delle bare sono proiettati a mo’ di ologrammi
girevoli e quella più ruspante dove il titolare, chitarra in spalla, canta
sulla tomba accompagnato dai tamburelli del suo aiutante, fa girare bene questa
commedia. Un uomo che scopre, alla morte della nonna, che questa era una donna
appassionata, che aveva amato un uomo sposato, un mago e ne aveva conservato le
lettere tutta la vita. Insomma, un film che potrebbe essere parafrasato con
“Una risata vi seppelirà”. Doppi sensi,
battutacce, un momento di relax, in una giornata inziata con le lacrime per il
film di Haneke e finita con quelle del film argentino di Avila (anche il cielo
si è unito a questo pianto generale visto che non ha smesso di piovere quasi
tutto il giorno! P.s. Nel mezzo di tutto ciò ho visto anche un film inglese,
Broken, ma non vale la pena scriverne…).
Ora, che io sia un caso patologico di
lacrime, è un dato di fatto. Ma vorrei spiegare che le lacrime per questi film
non sono pura e semplice commozione. Non si tratta di una scena o una storia
triste…a volte, si tratta proprio di emozione alla stato puro, di solidarietà.
Come accaduto con il film argentino Clandestine
Childood.
Non una lacrima durante il film (o forse solo in un momento, ndr),
ma quando, durante gli applausi finali, il regista è scoppiato in lacrime ed
era due file dopo di me, beh….non ce l’ho fatta! Già sono sensibile agli
applausi (anche se non sono per me, quando sono sentiti e più sonori del
solito, non resisto!), ma la sua commozione per aver raccontato la sua storia
personale attraverso il film, e perché il film è stato apprezzato dal pubblico,
mi hanno steso al suolo definitivamente.
Davvero un bel film. Intanto, ha un’originale trovata di
inserimento di immagini disegnate, una graphic novel inserita nel film in
diversi momenti, quelli cruciali. La storia quella di un’infanzia rubata, clandestina,
come dice il titolo, perché vittima delle scelte degli adulti, di genitori
impegnati in una lotta armata. Siamo nell’Argentina di fine anni ’70, e il
bambino protagonista, Juan, è costretto a diventare Ermesto, a festeggiare un
compleanno che non è il suo, perché i genitori e lo zio fanno parte del gruppo
di lotta Monteneros, che si oppone, con la lotta armata, alla giunta militare.
Lo sguardo del bambino sulle cose degli adulti, su ciò che ascolta nascosto da
una colonna, la sua vita inventata a scuola, il primo amore, un rapporto
speciale con lo zio Beto che gli spiega cos’è l’amore attraverso le nocciole
ricoperte di cioccolato, fanno del film un gioiello da custodire. Ritmo, sogni,
cambi di luce, il canto, la musica (così come era presente,in maniera
fondamentale, in NO di Larrain…che il canto sia
qualcosa di radicato nelle
culture argentina e cilena?), una delicata storia d’amore adolescenziale
e la storia di morte di coloro che, con le parole di zio Beto, pensano che “ la
felicità non è sorridere, ma credere, avere una fede”, e lottare, fino alla
morte, se necessario, per questa fede. Assolutamente
da non perdere.
E domani mattina:
Resnais! Con il mio adorato Mathieu Amalric.
Quanto amo questo festival! Anche sotto la pioggia...mai vista una croisette così deserta!!
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