domenica 9 settembre 2012

Estasi da Brillante

Giovedì  al Lido si cominciava già a respirare l’aria di fine mostra. Persone con le valigie, folla che scema, la consapevolezza che ci si avvia alla conclusione di un periodo, come quello di un festival del cinema, in cui si vive in una sorta di sospensione dalla realtà e dal tempo. La giornata è infatti scandita dagli orari delle proiezioni, ci si insegue telefonicamente con amici e colleghi per riuscire a prendere un caffè, si corre da una parte all’altra per non perdere quel film che sembra sia lì pronto a cambiarti la vita, e quando ci si incontra (e al Lido è impossibile non incontrarsi… ci si sbatte addosso, praticamente, ho visto quest’anno gente con cui ero in fila gli anni passati, anche se non li conosco direttamente!). Ho iniziato la giornata con il film fuori concorso di Robert Redford, The Company you  keep. 
Un film…tranquillo, nel senso che sai cosa aspettarti, classico film americano, in cui Redford non si smentisce, che si lascia guardare. Con dei dialoghi serratissimi che mi sono piaciuti molto, quello tra il personaggio interpretato da Susan Sarandon, imprigionata, e il giornalista incarnato da Shia Lebeuf, quelli tra il giornalista e lo stesso Redford, e altri ancora. La cosa più brutta di questo film è il fatto che Redford abbia scelto per se il ruolo del protagonista. Non perché non sia un bravo attore, ma la sua età non combaciava con quella del protagonista, ed è stato imbarazzante vederlo correre, con le gambette magre ed il ventre un po’ gonfio (lo so, sembro impietosa…ma ho provato davvero un po’ di tristezza in quelle scene), con il fisico di un uomo che non ha l’età che il personaggio del film vorrebbe far credere.  Bello invece vederlo in conferenza stampa, spiritoso e affascinante come sempre. Una giornalista tedesca: “ We know you have a wonderful german wife”. Redford:”How do you know she is wonderful?” Giornalista: “I saw her on films”. Redford:” Don’t trust what you see on films.”

Ma il bello della giornata è arrivato con il film successivo, Sinapupuna (Thy Womb) di Brillante Mendoza. Beh, questo era per me il film che doveva vincere il leone d’oro. Ne sono uscita estasiata. Perché la maestria del regista si sposa con il racconto del film, e i pregi della sua direzione non sono pura esibizione di bravura, fini a sé stessi, ma eccellenti strumenti di narrazione, che esaltano il racconto per immagini di una storia d’amore, di un amore profondo che si spinge oltre un limite che possiamo comprendere, anche perché comunque inserito in una cultura diversa dalla nostra. Che il film ci porta a scoprire, attraverso un viaggio alla ricerca di una sposa fertile , una seconda moglie, ma senza guardare questa cultura con quell’interesse antropologico che il regista non può avere, essendo la sua cultura di provenienza, ma facendoci davvero entrare nelle case, o meglio, nelle palafitte, cullati dal dondolio della camera a rendere il movimento dell’acqua circostante, protagonista anch’essa del film, aprendoci un varco nel cuore della protagonista, oppure tra le fila di una comunità riunita in preghiera (bellissima immagine, ripresi di spalle, nei loro coloratissimi abiti, su di una spiaggia…e mentre guardavo questa scena mi è venuto in mente un paragone surreale, e chi lo ha visto concorderà con l’aggettivo,  con la scena iniziale della spiaggia, anche lì, coloratissima, di Spring Breakers…confronto di costumi, e non da bagno!), nei semplici ed ordinari gesti della vita quotidiana, la pesca , il mercato, il macello di un animale, i matrimoni.  Spingendosi con la camera nelle profondità o in superficie, rimanendo sospesi sul pelo dell’acqua, a raccontare, attraverso l’impercettibile velo di lacrime della protagonista, l’amore sterile per il suo uomo che darà invece il suo frutto attraverso il gesto d’amore della rinuncia. Per permettere all’amore di compiere la sua parabola, e chiudere il film così come era iniziato: con la ripresa di un parto, di una nascita, della vita.
Consueto appuntamento pomeridiano in sala Darsena con quella che potremmo definire una tragi-commedia, una commedia grigia, se non proprio nera.  Il film è Keep smiling, di  Rusudan Chkonia, registra georgiana. La storia è quella di un concorso di bellezza per madri, e a partecipare è un gruppo eterogeneo di donne, ognuna con la sua più o meno accentuata disperazione. Buon ritmo, il film si segue piacevolmente nell’esplorazione delle piccole e grandi tragedie, delle meschinità, mettendo in ridicolo il mondo della televisione e le sue regole e l’assenza di dignità che chiede. Dignità che però le donne protagoniste non sono disposte a perdere. Fino alle estreme conseguenze. Buona opera prima.

A seguire il film russo Me too, di Alexej Balabanov. Un film, secondo me, troppo russo per poter essere apprezzato altrove…e sapete quale debole ho per la loro cinematografia! Qualche buona idea, qualche risata per  le situazioni grottesche e l’ironia sulla categoria dei registi, un viaggio alla ricerca della felicità, attraverso un campanile. Strampalato, surreale…non completamente riuscito.
Ancora tre film per il prossimo post...e poi saranno considerazioni finali! 

Ancora film dal pianeta Venezia (fuso orario 4 giorni!)

La mattina di mercoledì si è aperta con l’atteso film di Bellocchio, Bella addormentata. Atteso per il tema, lo spunto presente nel film circa la vicenda di Eluana Englaro e la questione sul fine vita, atteso perché un film di Bellocchio normalmente lo è… Un film riuscito, almeno nel complesso, che è mediamente piaciuto, pur con delle riserve, anche da parte mia. Perché se la storia, i personaggi, la recitazione, e varie componenti, sono ben congegnate quando ruotano attorno alla figura dell’onorevole Uliano Beffardi, ai suoi dialoghi con uno strepitoso Herlitzka nella parte dello psichiatra dei parlamentari, al suo rapporto con la figlia, e al suo interrogarsi sul voto da dare in parlamento, altrettanto bene non si può dire delle altre storie che si intrecciano, quella molto simbolica (ma senza esserlo fino in fondo, e quindi l’aggettivo giusto sarebbe più irrealistica che simbolica…) con Maya Sansa e Piergiorgio Bellocchio, e quella che vede protagonisti la Huppert, Gianmarco Tognazzi e Brenno Placido.  E durante quell’episodio , messo al centro, temporalmente, della narrazione, il film si siede. Così come, una Maya Sansa bellissima, con una scollatura che mette in mostra le sue bellezze, appare sin dalla prima scena e mi disturba dal quel momento, per quella voluta e cercata ostentazione della sua bellezza, reiterata nella scena finale in cui, nel tentativo di salvarla dal gettarsi dalla finestra, si mette in mostra il pezzo di sotto del bikini di cui in precedenza si era mostrata la parte superiore.   Vero che è lei a rappresentare una bella addormentata, almeno nella parte simbolica del film, ma a me questa scelta non è piaciuta. 
Ma il film ha riscosso comunque, in generale, un gradimento, e Bellocchio, forse per questo, era particolarmente contento , spiritoso e disinvolto in conferenza stampa. Ad un giornalista che gli ha chiesto se il suo fosse un film politico ha risposto: “Mi viene in mente quel film di Moretti in cui si dice: ma la lotta di classe, dov’è la lotta di classe?

Subito dopo è stata la volta di O GEBO E A SO OMBRA, il film di Manuel de Oliveira. Un film stellare, nel cast, se vi nomino Micheal Londsdale, Claudia Cardinale, Jeanne Moreau, per citarne alcuni. Un film basato su di una piece teatrale e che tale impianto teatrale si porta dietro. Un film di parola, quasi completamente girato in un’unica stanza, anzi, oserei dire, in un’unica parte della stanza, visto che la camera è pressochè fissa ad inquadrare Micheal Londsdale che scrive, lavora, facendo i conti, e chi si siede accanto a lui, la moglie, la nuora, un amico.  E qui, in questo film così lontano dagli altri del festival , si tocca un tema già presente in un film diversissimo, come Pietà di Kim Ki-duk, cioè quello del denaro, intorno a cui ruota la vicenda familiare rappresentata. Perché è il denaro che manca a questa famiglia, che vive in ristrettezza, è il denaro che il padre conta e annota, facendo il contabile, è il denaro che il figlio sciagurato, prima assente e poi figliol prodigo senza pentimento, ruba gettando la sua famiglia nello sconforto e soprattutto il padre in galera, visto che si assume la responsabilità del furto. E alle parole di conforto che cercano di rivolgersi, questo padre, agnello sacrificale, risponde: “Quando si toccano i soldi, non si perdona mai.”. Bello ma faticoso nel vedersi per il suo impianto narrativo.
Pausa da visioni per assistere alla conferenza stampa di Spring Breakers e Bella addormentata e poi nel pomeriggio è stata la volta del consueto appuntamento con il film delle 17 in Sala Darsena, per le Giornate degli autori. Sto parlando di Heritage di Hiam Abbas, una regista palestinese, famosa soprattutto come attrice (la ricorderete nell’Ospite inatteso, protagonista de Il giardino dei limoni e tanti altri film).  Il film, Heritage, racconta la storia di una famiglia palestinese che sembra aver raggiunto un punto di rottura. Ogni componente della famiglia ha il suo dramma, chi sta fallendo economicamente, chi nel suo matrimonio, il padre che va in coma, la figlia che cerca di vivere il suo amore per uno straniero, ribellandosi ai dettami della sua cultura e delle tradizioni…ed è questo certamente l’episodio centrale, che indaga, in questo come in tanti altri film di questa mostra, la condizione della donna raccontata da una regista donna, anche se la stessa Hiam Abbas, nell’incontro a fine film, ha preso le distanze dal concetto di solidarietà femminile con cui si voleva etichettare il film, perché a lei interessa l’essere umano, e vanno tralasciate le distinzioni tra i sessi, le divisioni, e tutti i personaggi, uomini o donne che siano, hanno in sé il bene e il male, non solo di quella società ma del genere umano.  Discreto.

Subito dopo è stata la volta di un film che invece mi ha molto colpito, tanto  che l’ho seguito con un groppo allo stomaco (o forse era la fame, direte voi?). Sto parlando de La Cinquieme Saison, un film potente, evocativo, che mi è piaciuto molto, ma che sicuramente non è per tutti (lo dico a tutela di amici che, bontà loro, seguono i miei suggerimenti cinematografici. Sicuramente possono vederlo Antonella, Alessandro, Andrea, Dompa…astenersi non cinefili!).  Un film sulla natura, ma soprattutto sul legame tra l’uomo e la natura, in un rapporto proporzionale di distruzione, di regresso. Accade dunque che la natura si ribelli, nel film, non attraverso le catastrofi che possiamo immaginare, ma in un percorso di sottrazione, in cui le stagioni non esistono più, la legna non brucia, il seme nella terra non germoglia e tutto torna indietro, specialmente l’uomo, ad una primitività mostruosa. E la felice collettività che ballava compatta sulla collina per salutare il generale inverno (con delle immagini straordinarie, che sembrano uscire dal pennello di un pittore), regredisce compatta fino a perdere le individualità nascoste dietro una maschera bianca che non perdona coloro che, pur nella tragedia, un volto, una responsabilità, una coscienza, un pensiero critico lo hanno ancorae che preferiscono essere "l'uomo del paradosso che del pregiudizio." Il tutto intervallato dal racconto del rapporto tra il suo padrone e il gallo Fred, in una sorta di sintesi e profezia della parabola tragica di un mondo che, come il gallo Fred, non canta più, a causa di un branco di struzzi…meditate gente!

Dopo aver trangugiato un Veggy Smith sandwich, insieme a Donatella ho visto Bellas Mariposas di Salvatore Mereu.  Film che mi ha strappato qualche risata, con lo strampalato racconto di una ragazzina che dialoga con la macchina da presa che la sta riprendendo, nel raccontare la sua sconclusionata famiglia che vive nella periferia di Cagliari. Ma, devo essere onesta, non mi sento di dare un giudizio sul film, perché molto spesso, durante la proiezione, la palpebra andava giù. Mi è sembrato ci fossero buone  idee, forse tutte non pienamente riuscite nella realizzazione, ma non sono uscita inorridita…giudizio sospeso.

giovedì 6 settembre 2012

Metti un James Franco in scena!

La giornata di martedì si è aperta sotto i migliori auspici, con il primo lungometraggio di Leonardo Di Costanzo, L'intervallo, un film italiano, dunque, che arriva da Napoli. E che racconta semplicemente la giornata trascorsa insieme da due ragazzi, 15 e 17 anni, prigioniera l’una, carceriere per un giorno l’altra. I motivi, il perché di tale reclusione in una villa abbandonata, saranno il punto di arrivo, a fine giornata, lungo la strada tracciata dalla  stessa narrazione che i due ragazzi fanno di sé stessi attraverso i dialoghi, i giochi, le favole,  in una caccia al tesoro della conoscenza, della fiducia, di un rapporto interpersonale che percorre i luoghi, nascosti, misteriosi, evocativi come l’acqua che i due solcano sulle ali della fantasia, dell’incontro, del dialogo. Ed è bello seguirli con la camera in questo viaggio al centro di sé stessi,  illuminato da una fotografia che non ha paura della nitidezza dei colori (il solito, grande, Luca Bigazzi), di lasciar parlare quella rappresentanza di natura dentro e fuori la villa abbandonata, gli uccelli, i cardellini, “che sono meglio del meteo, perché hanno un olio sotto le piume , e quando deve piovere, se lo passano sulle piume, come un impermeabile”, il ristagno dell’acqua, che “se non fosse così sporco sembrerebbe la Grotta azzurra”, il tuono, che “dicono sia il rumore della carrozza quando il diavolo porta a spasso la moglie. Un film che ci lascia con una domanda: “Hai visto, non sono scappata. E tu, l’hai trovata la strada?”.

Dopo questo gioiellino, stessa sala, la Perla, stesso posto, per assistere a Linhas de Wellington, un film in costume, durata 2 ore e 30 minuti, frutto del lavoro del regista Ruiz, scomparso prima della realizzazione, e portato sullo schermo dalla sua compagna, Valeria Sarmiento.  Lungo, ma alla fine si vede, più televisivo che cinematografico, può servire per un ripasso di storia, e per conoscere la ricetta del filetto alla Wellington, che lo stesso generale, con il volto inconfondibile di John Malcovich, spiega al pittore con cui interloquisce. Piccolo cameo per Mathieu Amalric nei panni di Napoleone (dire piccolo cameo è troppo, visto che lo vediamo sullo schermo per 2 secondi e mezzo!), e bel siparietto della cena che vede come commensali Isabelle Huppert, Michel Piccoli e Catherine Denevue. Si può perdere.
Primo pomeriggio in compagnia di MenatekHa-Main (The Cutoff Man) di Idan Hubel. Un mestiere scomodo, quello di staccare l’acqua ai debitori insolventi con il comune, un mestiere che ovviamente si sceglie non per vocazione, e che si cerca di svolgere di nascosto. La camera, spesso fissa, ad indicare una realtà statica, dove sembra impossibile il cambiamento, ci mostra i personaggi venire incontro allo spettatore, o ci lascia guardare con gli occhi del protagonista, in una soggettiva ripetuta, la sua piccola realtà com’è contenuta dal contorno del parabrezza della macchina. Uno steccato, limite invalicabile che non lascia scorgere prospettive di futuro, di infinito, ma il luogo di cene silenziose, di menu invariati, di una sconsolata rassegnazione.  Un buon film.

Pomeriggio con l’appuntamento, ormai fisso, della proiezione delle 17 in Sala Darsena, giornate degli autori. Il gemello, un altro film italiano, di Vincenzo Marra. Girato nel carcere di Secondigliano, protagonista un ispettore di polizia penitenziaria ed un detenuto, tra gli altri, che dichiara la sua storia dicendo : “Ho 29 anni, ne ho fatti 12 di carcere, per me mamma e papà sono i muri. (del carcere, ndr)”. La vita quotidiana, le pulizie in cella, i delicati rapporti con gli altri detenuti, il compagno di cella da cambiare, gli sfottò – alla fine divento come lui, una porchetta con il limone in bocca o un panettone con i piedi- in un film che si segue davvero volentieri, e che ti fa sbirciare in una realtà come quella carceraria che negli ultimi anni è stata spesso rappresentata, in modi diversissimi (anche qui alla Mostra, con Tango Libre nella sezione Orrizonti), sullo schermo, ma che questa volta ha il sapore e il pregio della realtà, un sapore di verità. O di una sua faccia. Rispondendo all’interrogativo del regista, cioè se fare un film cambi la vita di qualcuno. Dalla lettera letta in sala, inviata al regista dallo stesso detenuto, pare proprio di sì. Un cambiamento almeno nel mondo interiore, nel cuore. 

La saggezza dell’età mi ha fatto uscire dalla proiezione delle 1930 per concedermi un po’ di riposo, un pasto che non fosse il solito panino, e la compagnia di Angela, per poi affrontare  l’ultima e dirompente (ma questo l’ho scoperto solo dopo) proiezione della serata: Spring Breakers.  
Il film che ha dato una scossa a questa Mostra.  Un lido, una spiaggia della California, ben diversa da quella veneziana, dove l’età media non supera i 25 anni mentre abbondantemente sopra la media sono il tasso alcoolico e lo stato di eccitazione, una smania febbrile di portare all’estremo più alto, all’eccesso, qualsiasi esperienza, un cocktail di sesso,  droga e rock&roll, come si diceva un tempo, shakerati con alcool e violenza.  Ma ciò che il film ha di strepitoso è proprio il modo in cui tutto è raccontato, con quella stessa frenesia ed eccesso che da contenuto si fa anche forma del racconto, mettendo a proprio servizio tutto il dizionario del linguaggio cinematografico. Ed ecco il magnifico piano sequenza della rapina, il James Franco diversamente dentato che si produce in una performance canora sulle note di Everytime di Britney Spears, i passamontagna abbinati ai bikini (non vi fate domande fino a che non avrete visto il film!), ritmo, violenza, grande montaggio e fotografia, bellissime trovate narrative. Il film scandalo? E così sia, se proprio bisogna etichettare, incasellare.  Pensa che sia l’estetica di Mtv ad aver condizionato la strada o è la strada che ha dato vita all’estetica di MTV? A tale domanda, in conferenza stampa, il regista, Harmony Korine, si è prima guardati intorno, e poi ha risposto un definitivo ed incisivo: “ I DO NOT KNOW!”.
Domani ultimo vero giorno di Mostra...sigh!

mercoledì 5 settembre 2012

I film di lunedì ovvero come fuggire da Malick

La giornata di lunedì è stata altrettanto prolifica, ma con una sbavatura iniziale. Mi sono concessa un po’ di riposo mattutino, nel senso che la sveglia è suonata alle 0830 ( e chi mi conosce sa quanto dormirei volentieri di più la mattina, essendo andata a dormire non prima delle due e mezzo!), e poi via al Pala-biennale per recuperare il film di Malick, To the Wonder. Vi dico solo questo: ho lasciato la sala dopo soli 45 minuti, per evitare di alzarmi in piedi  nella sala e urlare, con l’obiettivo di fermare l’incessante ed estenuante (per lo spettatore) svolazzare della protagonista sullo schermo. Una gatta morta di quelle che ti strappano le botte dalle mani, e per ovviare a questo accesso di violenza che prendeva corpo nella mia mente, ho abbandonato il campo, correndo a vedere un film che invece mi è piaciuto molto. Sto parlando di Apres Mai, di Assayas.  Ho sentito in televisione, in uno dei servizi sulla Mostra, che veniva definito un film su degli studenti. Ma, quello che veniva omesso, colpevolmente, è che questi studenti, fotografati  nell’estate del passaggio dalla scuola all’università, sono gli studenti del 1972, in Francia,  e quello che viene raccontato,  in maniera mirabile, sono le  loro storie d’amore, di impegno politico, di lotta, di militanza, di sogni,  di viaggio, ma soprattutto, un’epoca. Con il  pregio di essere riuscito, il regista, a restituire in maniera precisa e puntuale quel momento storico, in un lavoro di ricostruzione, ma senza alcuna operazione nostalgia, facendo vibrare sullo schermo la vivacità , la nitidezza, l’esuberanza , le passioni, la ricerca, le derive, di questi  giovani uomini e donne alle prese con un momento fondamentale non solo della loro vicenda personale ma di quella, più generale, della società di quel tempo. Con alcune battute meravigliose, che rappresentano già una sintesi del momento storico: “Vogliamo un’informazione libera al servizio della rivoluzione interna” (ma non era libera?? ndr), “Ma il cinema rivoluzionario non dovrebbe adottare una sintassi rivoluzionaria? – No, perché sarebbe uno shock per il proletariato”. E la bellissima immagine conclusiva di uno dei protagonisti, sul set del film di fantascienza cui sta lavorando a Londra, è quella del la sua ombra proiettata sullo schermo della sua rinuncia, in senso neutro: la rinuncia ad un’età, con tutto il relativo bagaglio, per passare, nel bene e nel male, al mondo della vita adulta, ad un’altra, è proprio il caso di dirlo, epoca.
A seguire, sempre nella mitica Sala Perla, il documentario di Daniele Vicari La nave dolce. Una storia, quella della nave Vlora, che ricordo benissimo, perché era l’estate della mia maturità classica, ma soprattutto , con tutta la classe, avevamo vissuto i 100 giorni con una gita a Roma che si era conclusa con la partecipazione, tra il pubblico, al Maurizio Costanzo Show. E quella sera (era dunque il periodo febbraio-marzo), la puntata era stata dedicata in maniera monografica, all’arrivo di immigrati albanesi, che infatti, in numero di circa 200, riempivano i posti della platea. Dunque un anno, il 1991, segnato dall’arrivo di questa massa di persone, attirate da un’immagine dell’Italia  creata ed edulcorata dalla televisione. Interessante ascoltare le parole odierne dei testimoni, la loro sincera commozione in sala, a 20 anni dal fatto, e vedere le immagini di repertorio, in cui, purtroppo, la politica non fa una gran bella figura. Ieri come ora. 
Il successivo film è stato sempre un italiano,  Acciaio, di Stefano Mordini. Tratto dall’omonimo romanzo della Avallone, che non ho letto, il film sconta forse il fatto di non essere riuscito ad affrancarsi dal racconto letterario. Il racconto risulta un po’ frammentato, con delle prevedibilità annunciate in corso d’opera, e una recitazione che non mi ha convinto, nonostante ritenga Michele Riondino un bravissimo attore. Ma l’accento toscano era altalenante con qualche romanità e altre interferenze. Sicuramente rilevante, invece, e attualissimo, il tema di una provincia in cui le prospettive di lavoro sono legate ad un’unica realtà di fabbrica, che domina e caratterizza la zona con la sua presenza. Qui sono le acciaierie a Piombino, ma viene sicuramente in mente l’Ilva di Taranto e la sua situazione attuale e tante altre declinazioni dello stesso fenomeno.
Ma il bello è arrivato subito dopo, con il film Pietà di Kim ki-duk.  Forse sono in una fase sadica della vita, non so, ma le crudeltà rappresentante nel film e la crudezza con cui vengono rappresentate, questa volta, rispetto a tanti altri film visti negli anni passati ai festival, non hanno scalfito il piacere della visione del film.  Forse perché non mi è sembrata una crudeltà pretestuosa, forse perché il film è girato in maniera magistrale, ogni dettaglio curato fino all’inverosimile (ci sono scorci di immondizia che potrebbero essere stati dipinti da un Caravaggio, tanto  sono pregnanti e vivi, come la sua pittura! Ndr), l’immagine che sobbalza perché sentiamo il sonoro di uno schiaffo che viene dato fuori campo, e poi il tema del denaro quale motore  e caposaldo di ogni criterio di giustizia, della crudeltà. “Il denaro è l’inizio e la fine di tutte le cose. Amore, rabbia, vendetta…” viene detto nel film. E muove anche la vicenda che si snoda lungo i percorsi delle sofferenze atroci delle vittime e dei familiari, e la solitudine e la crudeltà del carnefice, che cade, ingenuamente nella rete dell’amore materno. Di un amore che viene abusato, che diventa ossessione, e che sembra sporgersi, come da un balcone, sul precipizio di una pietà che nasce dalla vendetta, e che si  getta nel vuoto delle note di un Agnus Dei. Da vedere. Astenersi deboli di visione!
Dopo la leggera passeggiata che è stato il film coreano, la serata si è conclusa con un film che mi ha letteralmente inchiodato alla poltrona, coinvolgendomi in maniera inaspettata. Sto parlando di Disconnect, un film fuori concorso, che racconta storie  di ordinaria deriva di sentimenti, di solitudini, incomprensioni, incomunicabilità, che sfociano in episodi più o meni tragici, passando attraverso la vita virtuale che tutti ci siamo più o meno costruiti sul web. Ed ecco dunque i rimpianti, i silenzi, i rimorsi, le lacrime. Un film che non ha particolarità da rilevare, se non l’intreccio delle storie, ma che ha la capacità di catturare l’attenzione, fino alla fine, regalando anche un finale che fortunatamente non sfocia nella prevedibilità dell’happy end, ma lascia aperte le varie possibilità.
E ora, che dite, non è il caso che vada a dormire, visto che domani mi aspettando altri cinque film e la scrittura del resoconto dei 10 film visti tra martedì e mercoledì? Sempre indietro di due giorni di fuso orario, la vostra inviata al Lido di Farnese cinemaLab vi saluta!

martedì 4 settembre 2012

Una domenica in Mostra

Domenica, quarta giornata dalla Mostra. Il film di apertura è stato uno dei più attesi, cioè The Master, di Paul Thomas Anderson.   Un film lungo, a cui come al solito avrebbe giovato una piccola sforbiciata (sono per le durate più contenute...tranne per alcuni intoccabili registi che possono permettersi qualsiasi cosa!), ma comunque un film di quelli che si tende a definire “un filmone”, con tutto il buono e il cattivo che tale connotazione porta con sé.  Un film girato benissimo, manco a dirlo, che magari, proprio per la lunghezza e il reiterarsi dei temi e delle situazioni, si vede con un po’ di fatica, ma che comunque dovrebbe essere visto, e rigorosamente in originale, per la maestosità, incredibile e superiore qualità, l’eccellenza, e tutti i sinonimi che riuscite a trovare, di Philip Seymour Hoffman, che giganteggia con il suo volto, le sue espressione e, soprattutto con la sua voce. Voce con cui il suo personaggio predica, pontifica, urla, canta. Coppa Volpi, almeno per me. Scandaloso se così non fosse.  A fare da contraltare  a questo “sacerdote” della nostra moderna ricerca di senso, quale che sia la strada per raggiungerlo, il suo doppio, il suo negativo, biondo e tronfio il primo, tanto scuro e cupo, e fragile il secondo. In un confronto serratissimo in cui tutto il resto non è che un grande “affresco” di contorno, per usare un’espressione abusata nelle descrizioni di film. E lo scuro, cupo, rabbioso personaggio è interpretato da un altrettanto bravo Joaquin Phoenix, che forse a volte calca un po’ la mano nell’interpretazione. Ma che ha suscitato in me delle emozioni estranee al film, ricordandomi tanto, in alcune espressioni, con l’onda nei capelli, in diversi primi piani, e uno sguardo verde ed intenso, il volto di mio padre.
Dopo un lauto pranzo domenicale da Scarso, con la bella e ridanciana compagnia di Surinder, Morris, Donatella e Loredana, è stata la volta di Clarisse, un documentario della Cavani girato nel convento delle clarisse di Urbino, con cui discute della loro vita, ma, anche e soprattutto, con esiti sorprendenti, della condizione della donna e del suo ruolo nella Chiesa. Sorprendenti, comunque, fino ad un certo punto, perché non ci si deve mai lasciar guidare dagli stereotipi, e quindi pensare alle suore come donne con una mentalità arretrata o censurata dal loro essere consacrate. Una testimonianza viva, bella, sincera, che fa davvero piacere ascoltare. "Siamo considerate inutili, perchè la preghiera è ritenuta inutile; è un'azione potente ma apparentemente senza potenza."
Fuggita dal film di Gitai, ma perché tutto parlato, essendo una testimonianza, che non potevo reggere dopo il pranzo da Scarso, mi sono poi concessa una pausa, per proseguire con il francese Cherchez Hortense, di Pascal Bonitzer, consigliato da molti. Una commedia con tante sfaccettature, molto ben scritta, ben recitata e ben diretta, che è stato davvero piacevole guardare nel pomeriggio in cui sono arrivati i primi cedimenti di stanchezza. Ve ne lascio una battuta. Durante un pranzo in cui, attraverso gli atteggiamenti che il padre ha nei confronti del cameriere, il figlio scopre, lui cinquantenne, che il padre ottantenne è gay, alla domanda diretta il padre risponde: "Non mi piacciono i ghetti identitatri ridicoli!".
Purtroppo non così è stato per il film successivo, Outrage Beyond di Kitano. Lo so, sento già i miei colleghi che mi dicono “ te lo dovevi aspettare, è un film giapponese”, ma questa è una lunga storia che nasce dalle nostre esperienze quotidiane, e che niente dovrebbe avere a che fare con il cinema! E invece! Ammetto il mio limite, ma sebbene riesca ad apprezzare la bravura della messinscena, della direzione, non così accade per il film nel complesso, e non riesco mai a capire se si tratta di me, o del valore del film. Poi sentire tutto il tempo l’eco delle voci di Tokito  (per dirne uno, per chi lo conosce!) aveva un suo macabro aspetto di ricordarmi che la prossima settimana devono tornare  in ufficio, ferie finite! Quindi, mi astengo dal giudizio, dichiarando la mia insofferenza per le due ore che ho vissuto in compagnia di questo film.
Per fortuna, e avevo già avuto rassicurazioni in merito da chi lo aveva visto, la serata si è conclusa con il film della Bier, All you need is love. Bier, devo dire, che avevo trovato sopravvalutata nel suo film precedente, e quindi temevo il peggio. Invece si tratta di un film che si lascia guardare piacevolmente, senza infamia e senza lode, con contorno di limoni, sole, mare, amore, Sorrento, e ovviamente mandolini, colpi di scena (se vogliamo così chiamarli), happy end e un Pierce Brosnan che mette in mostra sia la sua beltà che la sua pancia, ma credo, mostrata senza infingimenti perché prevista da copione! Come a me ha mostrato la sua stempiatura! Ma anche il suo bel sorriso!
 

domenica 2 settembre 2012

Sabato 1 settembre...Fill the void.

Sabato, terzo giorno di mostra, un giorno tranquillo…solo tre film e mezzo, una conferenza e un concerto…giornata di  riposo, insomma!
La mattina è partita con più calma, perché il primo appuntamento era l’incontro all’Excelsior di Schermi di qualità. Bello incontrare Cristina,  Gianluca, Angela, ascoltare Gianni e gli altri interventi, e poi di corsa alla proiezione del film di Ciprì, è stato il figlio. So già che il mio giudizio non combacia con quello del resto del pubblico che era in sala e degli amici che lo hanno visto con me. Il film sta piacendo a tutti…a me no. E non è neanche uno di quei film che mi lasciano perplessa, in cui il giudizio è sospeso, è un mezzo si e un mezzo no. Ero fermamente convinta del no, all’uscita. Per me non basta che un film parli, attraverso una rappresentazione grottesca, del nostro paese, come tutti quelli a cui è piaciuto mi dicono. Un film deve convincermi anche e soprattutto per come parla di qualcosa, per come racconta una storia, quella storia. Altrimenti ci limiteremmo e leggere i soggetti, senza tanti sforzi ulteriori nel produrre un film.  Ho visto nel film tutte le intenzioni, ma, il problema, è proprio quello. Mi piace vedere le intenzioni del regista, dello sceneggiatore, ma devo riuscire a vederle attraverso la realizzazione del film, devo vedere il compimento di quelle intenzioni, fattivo, nel film. Quando invece le intenzioni e le tecniche, e la messinscena, si vede sullo schermo più del suo esito, ecco, il film non riesce a piacermi, non mi convince, anzi, mi da fastidio.  Come se, sulla scena, in teatro, recitassero anche le didascalie o le note di regia…capito il concetto? E poi c’è differenza tra grottesco e macchiettistico….

Pausa pranzo seduti (gran lusso) con una bella insalata davanti insieme e Giuseppe, Federico e …un ometto, un personaggio, che gira tutti i cinema, i teatri, gli eventi a Roma, e che ci siamo ritrovati anche qui…e che tentava di attrarre ka nostra attenzione parlando dei palinsesti delle proiezioni, del perché un film sia alle 1700 piuttosto che alle 1100…momenti di folklore! Dopo pranzo siamo andati a recupare un film di cui già tanti ci parlavano bene, Wadjda.  Si presentava già come un film evento, essendo stato girato completamente, per la prima volta, in Arabia Saudita, e da una donna. La storia di una bicicletta, di una conquista, della tenacia, della perseveranza, dell’ostinazione di una ragazzina, che lotta per avere quello che si è prefissata: una bellissima bicicletta verde. Che non è, in questo caso, solo un oggetto, un capriccio. Perché la bicicletta non è un gioco ammesso per le ragazze, perché per averla bisogna sfidare le convenzioni di una società in cui non bisogna farsi vedere e sentire dagli uomini, se si è una donna, perché “la voce di una donna è la sua nudità”.  Ma la cosa più bella del film è che questo racconto non viene fatto con i toni del vittimismo. Un film semplice,  dove il racconto scorre naturalmente, dove tutto è al posto giusto, e la scena finale, bellissima, è quello che dovrebbe essere: felicemente prevedibile.

Poi mi sono concessa un lusso incredibile: due ore di stacco, in cui ho semplicemente chiacchierato di film, al Movievillage, davanti ad un cappuccino.  Ma al varco mi attendeva una nuova proiezione. Fill the void, di Rama Burshtein. E un nuovo film che mi trova in controtendenza rispetto al pubblico (o almeno a quello che era con me alla sala Darsena). Il film mi è piaciuto, molto. Il pubblico accanto a me lo ha fischiato, ed addirittura accolto con urla, buuu corali, oltre agli sbuffi di impazienza che ho sentito durante la proiezione. La storia è ambientata in una comunità di ebrei ortodossi, quelle in cui gli uomini hanno i boccoli ai lati del viso, e cappelli che sembrano colbacchi, per capirci.  Ma non voglio soffermarmi sulla trama, perché quello che il film veramente indaga è il tentativo, in questa cultura nello specifico, ma si potrebbe dirlo un tentativo universale, di capire, comunicare, vivere, l’amore, e, nello specifico, quello che si declina nel rapporto tra l’universo maschile e quello femminile. Sebbene i matrimoni siano combinati. Sebbene si viva come se non vi possa essere altra strada e realizzazione che nel matrimonio, specialmente per le donne.      E allora ci sono le bellissime scene di dialogo tra i due protagonisti, nel momento in cui sanno che il loro incontro è un incontro di approccio destinato ad un futuro ipotetico insieme: le mani di lei, giovanissima, che impacciate, non sanno trovare una posizione, lo sguardo meraviglioso di lui, che la guarda con un misto di desiderio, pudore,  dall’alto di una maggiore età ed esperienza in cose d’amore. Raffinate le riprese, il gioco della messa a fuoco, i canti inseriti come colonna sonora. Da vedere.

A domani con il resoconto di domenica, 5 film, il pranzo da scarso, e la visione di Pierce Brosnan ad una distanza di 30 cm!!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

sabato 1 settembre 2012

Venerdì 31 agosto: bottino di sei film...in differita!

La seconda giornata (venerdì) alla Mostra non poteva iniziare nel migliore dei modi: un bellissimo film israeliano, Epilogue,di Amir Manor, un’opera prima, che mi  ha fatto versare fiume di lacrime mattutine!!!  Un film che mi ha inevitabilmente riportato agli occhi e nel cuore Amour di Haneke, perché protagonista, anche qui, una coppia di persone anziane, che si trovano a confrontarsi e ad affrontare la difficoltà dell’essere “vecchi”,  nel caso del film israeliano anche la difficoltà economica nel tirare avanti, quella fisica degli  acciacchi dell’età, ma soprattutto il peso della fine dei sogni, delle illusioni, il confronto tra un’idea di società che si è cercato di costruire e l’amaro confronto con quella che ci si trova davanti. Commovente, profondo, con una regia sapiente che spia, scruta, compone il quadro, segue la coppia nella suo cammino, scendendo nel profondo e fino in fondo con movimenti di macchina che dicono anche qualcosa sulla storia. Insomma, un’opera prima da tenere d’occhio.
Il secondo film della giornata Superstar. Un film sulla contemporanea concezione di notorietà, sull’essere famosi per 15 minuti, e il ruolo dei media, si, ma soprattutto del web. Un racconto che potremmo definire triste, grottesco, anche se il tono, lungo buona parte del film, è quello di commedia. Una commedia amara però, dove le risate sono più risate isteriche che contemplano qualcosa a cui assistiamo spesso e volentieri: la mitizzazione, con relativa beatificazione laica officiata dai social network, di qualcuno che di mitico non ha niente, se non il fatto di essere stato scelto, senza motivo alcuno, da un non meglio identificato popolo del web…e tutte le conseguenze che ne scaturiscono…le riflessioni sono tante, il film non è un capolavoro, ma si lascia guardare, ci sono alcuni momenti irresistibili, riesce a tenere fino alla fine spostando il baricentro man mano che procede nel racconto. E poi va detto, c’è Cecile De France che è di una bellezza  straordinaria, e i suoi primi piani  varrebbero il film!
Terzo film: La città ideale, di Luigi Lo Cascio. NI. Nel senso che non mi è dispiaciuto del tutto ma non mi ha entusiasmato, ma, soprattutto, ha provocato in me un effetto che il cinema non dovrebbe mai provocare: mi ha fatto guardare l’orologio, il che vuol dire che ad un certo punto non ne potevo più! Mi perdonerà Rosanna, ma l’ho trovato un film un po’ verboso, e molto, molto, molto incentrato sul ruolo che Lo Cascio si è ormai ritagliato per se, a prescindere da quale film faccia. Quello di un uomo irrisolto, problematico, nevrotico, che analizza, sé stesso, il mondo, ogni piccolo gesto. E per questo suo modo d’essere si scontra con il resto del mondo. Un po’ retorico anche il discorso sottinteso sulla giustizia…NI.                                                                                                               
E poi è stata la volta di Queen of Montreuil. 87’ spassosi minuti con una foca, una sessantenne che rincorre un abito da sposa rosa e maneggi a una gru, un lutto da elaborare ospitando due estranei ed una foca in casa propria. Leggero, senza grosse pretese, ma piacevole.
Doppia serata, con due film: At any price e Paradise:Faith.
At any price non mi è piaciuto. Scontato, calca un po’ la mano su tanti stereotipate rappresentazioni di una certa America, con uno Zac Efron che non riesce a spettinarsi neanche quando si toglie il caso, o tira un vento tipo  bora! Il figliol prodigo, tutti duri e puri (neanche tanto), e i sogni infranti contro un albero (guarda caso, in uno sterminato campo di granturco, è riuscito proprio a prendere quell’unico albero!!). Insomma, non mi è piaciuto il tema, il modo in cui è stato scritto e raccontato per immagini. Si era capito? Da perdere. Inutile.

Paradise: Faith.  Un film difficile, un film non per tutti, ma che segue coerentemente il numero uno della trilogia, Paradise:love, visto e apprezzato  a Cannes. Camera fissa,  la capacità di raccontare “asetticamente” quanto si ha davanti, qualunque cosa essa sia.  E non è un caso che sia la protagonista del primo film che quella del secondo siano infermiere, assistenti socio-sanitari. Persone che dovrebbero curare  sé stesse, pima degli altri,  per le aberrazioni, pur diverse, in cui sfogano  la propria infelicità, la propria frustrazione. Un film che esaspera, perché reitera, perché racconta l’ossessione, quella della sequela di militante di Cristo, a caccia di persone da convertire, portando con sé, di porta in porta, una statua della Madonna. Ma, come nel primo caso quello non era amore, qui non ci troviamo di fronte alla fede, ma ad una sua estremizzazione, in una forma di fanatismo che esclude sempre di più questa donna, già profondamente sola.  Un film al limite del grottesco, in alcune scene, con il dubbio  (in Angelo) che non siano plausibili le aberrazioni raccontate,  dubbio instillato da una ragione che non contempla un simile grado di perversione declinata nella fede. Da vedere, un film per riflettere, ma anche un film che racconta  con precisione le scelte stilistiche del regista, la sua poetica. Quello che dovrebbe sempre fare il cinema. In un percorso, in questo caso, con tre tappe, di cui non vedo l’ora di poter vedere la terza.
Come vedete, sono un po' in ritardo sulla tabella di marcia...ma trascorrendo tutto il giorno in sala il ritardo si accumula e la notte condetemi almeno 4 ore di sonno!
Per sabato solo tre film: ma due sono tre mi sono piaciuti, e non è male come media! A domani!