mercoledì 5 settembre 2012

I film di lunedì ovvero come fuggire da Malick

La giornata di lunedì è stata altrettanto prolifica, ma con una sbavatura iniziale. Mi sono concessa un po’ di riposo mattutino, nel senso che la sveglia è suonata alle 0830 ( e chi mi conosce sa quanto dormirei volentieri di più la mattina, essendo andata a dormire non prima delle due e mezzo!), e poi via al Pala-biennale per recuperare il film di Malick, To the Wonder. Vi dico solo questo: ho lasciato la sala dopo soli 45 minuti, per evitare di alzarmi in piedi  nella sala e urlare, con l’obiettivo di fermare l’incessante ed estenuante (per lo spettatore) svolazzare della protagonista sullo schermo. Una gatta morta di quelle che ti strappano le botte dalle mani, e per ovviare a questo accesso di violenza che prendeva corpo nella mia mente, ho abbandonato il campo, correndo a vedere un film che invece mi è piaciuto molto. Sto parlando di Apres Mai, di Assayas.  Ho sentito in televisione, in uno dei servizi sulla Mostra, che veniva definito un film su degli studenti. Ma, quello che veniva omesso, colpevolmente, è che questi studenti, fotografati  nell’estate del passaggio dalla scuola all’università, sono gli studenti del 1972, in Francia,  e quello che viene raccontato,  in maniera mirabile, sono le  loro storie d’amore, di impegno politico, di lotta, di militanza, di sogni,  di viaggio, ma soprattutto, un’epoca. Con il  pregio di essere riuscito, il regista, a restituire in maniera precisa e puntuale quel momento storico, in un lavoro di ricostruzione, ma senza alcuna operazione nostalgia, facendo vibrare sullo schermo la vivacità , la nitidezza, l’esuberanza , le passioni, la ricerca, le derive, di questi  giovani uomini e donne alle prese con un momento fondamentale non solo della loro vicenda personale ma di quella, più generale, della società di quel tempo. Con alcune battute meravigliose, che rappresentano già una sintesi del momento storico: “Vogliamo un’informazione libera al servizio della rivoluzione interna” (ma non era libera?? ndr), “Ma il cinema rivoluzionario non dovrebbe adottare una sintassi rivoluzionaria? – No, perché sarebbe uno shock per il proletariato”. E la bellissima immagine conclusiva di uno dei protagonisti, sul set del film di fantascienza cui sta lavorando a Londra, è quella del la sua ombra proiettata sullo schermo della sua rinuncia, in senso neutro: la rinuncia ad un’età, con tutto il relativo bagaglio, per passare, nel bene e nel male, al mondo della vita adulta, ad un’altra, è proprio il caso di dirlo, epoca.
A seguire, sempre nella mitica Sala Perla, il documentario di Daniele Vicari La nave dolce. Una storia, quella della nave Vlora, che ricordo benissimo, perché era l’estate della mia maturità classica, ma soprattutto , con tutta la classe, avevamo vissuto i 100 giorni con una gita a Roma che si era conclusa con la partecipazione, tra il pubblico, al Maurizio Costanzo Show. E quella sera (era dunque il periodo febbraio-marzo), la puntata era stata dedicata in maniera monografica, all’arrivo di immigrati albanesi, che infatti, in numero di circa 200, riempivano i posti della platea. Dunque un anno, il 1991, segnato dall’arrivo di questa massa di persone, attirate da un’immagine dell’Italia  creata ed edulcorata dalla televisione. Interessante ascoltare le parole odierne dei testimoni, la loro sincera commozione in sala, a 20 anni dal fatto, e vedere le immagini di repertorio, in cui, purtroppo, la politica non fa una gran bella figura. Ieri come ora. 
Il successivo film è stato sempre un italiano,  Acciaio, di Stefano Mordini. Tratto dall’omonimo romanzo della Avallone, che non ho letto, il film sconta forse il fatto di non essere riuscito ad affrancarsi dal racconto letterario. Il racconto risulta un po’ frammentato, con delle prevedibilità annunciate in corso d’opera, e una recitazione che non mi ha convinto, nonostante ritenga Michele Riondino un bravissimo attore. Ma l’accento toscano era altalenante con qualche romanità e altre interferenze. Sicuramente rilevante, invece, e attualissimo, il tema di una provincia in cui le prospettive di lavoro sono legate ad un’unica realtà di fabbrica, che domina e caratterizza la zona con la sua presenza. Qui sono le acciaierie a Piombino, ma viene sicuramente in mente l’Ilva di Taranto e la sua situazione attuale e tante altre declinazioni dello stesso fenomeno.
Ma il bello è arrivato subito dopo, con il film Pietà di Kim ki-duk.  Forse sono in una fase sadica della vita, non so, ma le crudeltà rappresentante nel film e la crudezza con cui vengono rappresentate, questa volta, rispetto a tanti altri film visti negli anni passati ai festival, non hanno scalfito il piacere della visione del film.  Forse perché non mi è sembrata una crudeltà pretestuosa, forse perché il film è girato in maniera magistrale, ogni dettaglio curato fino all’inverosimile (ci sono scorci di immondizia che potrebbero essere stati dipinti da un Caravaggio, tanto  sono pregnanti e vivi, come la sua pittura! Ndr), l’immagine che sobbalza perché sentiamo il sonoro di uno schiaffo che viene dato fuori campo, e poi il tema del denaro quale motore  e caposaldo di ogni criterio di giustizia, della crudeltà. “Il denaro è l’inizio e la fine di tutte le cose. Amore, rabbia, vendetta…” viene detto nel film. E muove anche la vicenda che si snoda lungo i percorsi delle sofferenze atroci delle vittime e dei familiari, e la solitudine e la crudeltà del carnefice, che cade, ingenuamente nella rete dell’amore materno. Di un amore che viene abusato, che diventa ossessione, e che sembra sporgersi, come da un balcone, sul precipizio di una pietà che nasce dalla vendetta, e che si  getta nel vuoto delle note di un Agnus Dei. Da vedere. Astenersi deboli di visione!
Dopo la leggera passeggiata che è stato il film coreano, la serata si è conclusa con un film che mi ha letteralmente inchiodato alla poltrona, coinvolgendomi in maniera inaspettata. Sto parlando di Disconnect, un film fuori concorso, che racconta storie  di ordinaria deriva di sentimenti, di solitudini, incomprensioni, incomunicabilità, che sfociano in episodi più o meni tragici, passando attraverso la vita virtuale che tutti ci siamo più o meno costruiti sul web. Ed ecco dunque i rimpianti, i silenzi, i rimorsi, le lacrime. Un film che non ha particolarità da rilevare, se non l’intreccio delle storie, ma che ha la capacità di catturare l’attenzione, fino alla fine, regalando anche un finale che fortunatamente non sfocia nella prevedibilità dell’happy end, ma lascia aperte le varie possibilità.
E ora, che dite, non è il caso che vada a dormire, visto che domani mi aspettando altri cinque film e la scrittura del resoconto dei 10 film visti tra martedì e mercoledì? Sempre indietro di due giorni di fuso orario, la vostra inviata al Lido di Farnese cinemaLab vi saluta!

Nessun commento:

Posta un commento