domenica 9 settembre 2012

Estasi da Brillante

Giovedì  al Lido si cominciava già a respirare l’aria di fine mostra. Persone con le valigie, folla che scema, la consapevolezza che ci si avvia alla conclusione di un periodo, come quello di un festival del cinema, in cui si vive in una sorta di sospensione dalla realtà e dal tempo. La giornata è infatti scandita dagli orari delle proiezioni, ci si insegue telefonicamente con amici e colleghi per riuscire a prendere un caffè, si corre da una parte all’altra per non perdere quel film che sembra sia lì pronto a cambiarti la vita, e quando ci si incontra (e al Lido è impossibile non incontrarsi… ci si sbatte addosso, praticamente, ho visto quest’anno gente con cui ero in fila gli anni passati, anche se non li conosco direttamente!). Ho iniziato la giornata con il film fuori concorso di Robert Redford, The Company you  keep. 
Un film…tranquillo, nel senso che sai cosa aspettarti, classico film americano, in cui Redford non si smentisce, che si lascia guardare. Con dei dialoghi serratissimi che mi sono piaciuti molto, quello tra il personaggio interpretato da Susan Sarandon, imprigionata, e il giornalista incarnato da Shia Lebeuf, quelli tra il giornalista e lo stesso Redford, e altri ancora. La cosa più brutta di questo film è il fatto che Redford abbia scelto per se il ruolo del protagonista. Non perché non sia un bravo attore, ma la sua età non combaciava con quella del protagonista, ed è stato imbarazzante vederlo correre, con le gambette magre ed il ventre un po’ gonfio (lo so, sembro impietosa…ma ho provato davvero un po’ di tristezza in quelle scene), con il fisico di un uomo che non ha l’età che il personaggio del film vorrebbe far credere.  Bello invece vederlo in conferenza stampa, spiritoso e affascinante come sempre. Una giornalista tedesca: “ We know you have a wonderful german wife”. Redford:”How do you know she is wonderful?” Giornalista: “I saw her on films”. Redford:” Don’t trust what you see on films.”

Ma il bello della giornata è arrivato con il film successivo, Sinapupuna (Thy Womb) di Brillante Mendoza. Beh, questo era per me il film che doveva vincere il leone d’oro. Ne sono uscita estasiata. Perché la maestria del regista si sposa con il racconto del film, e i pregi della sua direzione non sono pura esibizione di bravura, fini a sé stessi, ma eccellenti strumenti di narrazione, che esaltano il racconto per immagini di una storia d’amore, di un amore profondo che si spinge oltre un limite che possiamo comprendere, anche perché comunque inserito in una cultura diversa dalla nostra. Che il film ci porta a scoprire, attraverso un viaggio alla ricerca di una sposa fertile , una seconda moglie, ma senza guardare questa cultura con quell’interesse antropologico che il regista non può avere, essendo la sua cultura di provenienza, ma facendoci davvero entrare nelle case, o meglio, nelle palafitte, cullati dal dondolio della camera a rendere il movimento dell’acqua circostante, protagonista anch’essa del film, aprendoci un varco nel cuore della protagonista, oppure tra le fila di una comunità riunita in preghiera (bellissima immagine, ripresi di spalle, nei loro coloratissimi abiti, su di una spiaggia…e mentre guardavo questa scena mi è venuto in mente un paragone surreale, e chi lo ha visto concorderà con l’aggettivo,  con la scena iniziale della spiaggia, anche lì, coloratissima, di Spring Breakers…confronto di costumi, e non da bagno!), nei semplici ed ordinari gesti della vita quotidiana, la pesca , il mercato, il macello di un animale, i matrimoni.  Spingendosi con la camera nelle profondità o in superficie, rimanendo sospesi sul pelo dell’acqua, a raccontare, attraverso l’impercettibile velo di lacrime della protagonista, l’amore sterile per il suo uomo che darà invece il suo frutto attraverso il gesto d’amore della rinuncia. Per permettere all’amore di compiere la sua parabola, e chiudere il film così come era iniziato: con la ripresa di un parto, di una nascita, della vita.
Consueto appuntamento pomeridiano in sala Darsena con quella che potremmo definire una tragi-commedia, una commedia grigia, se non proprio nera.  Il film è Keep smiling, di  Rusudan Chkonia, registra georgiana. La storia è quella di un concorso di bellezza per madri, e a partecipare è un gruppo eterogeneo di donne, ognuna con la sua più o meno accentuata disperazione. Buon ritmo, il film si segue piacevolmente nell’esplorazione delle piccole e grandi tragedie, delle meschinità, mettendo in ridicolo il mondo della televisione e le sue regole e l’assenza di dignità che chiede. Dignità che però le donne protagoniste non sono disposte a perdere. Fino alle estreme conseguenze. Buona opera prima.

A seguire il film russo Me too, di Alexej Balabanov. Un film, secondo me, troppo russo per poter essere apprezzato altrove…e sapete quale debole ho per la loro cinematografia! Qualche buona idea, qualche risata per  le situazioni grottesche e l’ironia sulla categoria dei registi, un viaggio alla ricerca della felicità, attraverso un campanile. Strampalato, surreale…non completamente riuscito.
Ancora tre film per il prossimo post...e poi saranno considerazioni finali! 

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