La giornata di martedì si è aperta sotto i migliori auspici,
con il primo lungometraggio di Leonardo Di Costanzo, L'intervallo, un film italiano, dunque,
che arriva da Napoli. E che racconta semplicemente la giornata trascorsa
insieme da due ragazzi, 15 e 17 anni, prigioniera l’una, carceriere per un
giorno l’altra. I motivi, il perché di tale reclusione in una villa
abbandonata, saranno il punto di arrivo, a fine giornata, lungo la strada
tracciata dalla stessa narrazione che i
due ragazzi fanno di sé stessi attraverso i dialoghi, i giochi, le favole, in una caccia al tesoro della conoscenza,
della fiducia, di un rapporto interpersonale che percorre i luoghi, nascosti,
misteriosi, evocativi come l’acqua che i due solcano sulle ali della fantasia,
dell’incontro, del dialogo. Ed è bello seguirli con la camera in questo viaggio
al centro di sé stessi, illuminato da
una fotografia che non ha paura della nitidezza dei colori (il solito, grande,
Luca Bigazzi), di lasciar parlare quella rappresentanza di natura dentro e
fuori la villa abbandonata, gli uccelli, i cardellini, “che sono meglio del
meteo, perché hanno un olio sotto le piume , e quando deve piovere, se lo
passano sulle piume, come un impermeabile”, il ristagno dell’acqua, che “se non
fosse così sporco sembrerebbe la Grotta azzurra”, il tuono, che “dicono sia il
rumore della carrozza quando il diavolo porta a spasso la moglie. Un film che
ci lascia con una domanda: “Hai visto, non sono scappata. E tu, l’hai trovata
la strada?”.
Dopo questo gioiellino, stessa sala, la Perla, stesso posto,
per assistere a Linhas de Wellington, un film in costume, durata 2 ore e 30
minuti, frutto del lavoro del regista Ruiz, scomparso prima della
realizzazione, e portato sullo schermo dalla sua compagna, Valeria
Sarmiento. Lungo, ma alla fine si vede,
più televisivo che cinematografico, può servire per un ripasso di storia, e per
conoscere la ricetta del filetto alla Wellington, che lo stesso generale, con
il volto inconfondibile di John Malcovich, spiega al pittore con cui
interloquisce. Piccolo cameo per Mathieu Amalric nei panni di Napoleone (dire
piccolo cameo è troppo, visto che lo vediamo sullo schermo per 2 secondi e
mezzo!), e bel siparietto della cena che vede come commensali Isabelle Huppert,
Michel Piccoli e Catherine Denevue. Si può perdere.
Primo pomeriggio in compagnia di MenatekHa-Main (The Cutoff
Man) di Idan Hubel. Un mestiere scomodo, quello di staccare l’acqua ai debitori
insolventi con il comune, un mestiere che ovviamente si sceglie non per
vocazione, e che si cerca di svolgere di nascosto. La camera, spesso fissa, ad
indicare una realtà statica, dove sembra impossibile il cambiamento, ci mostra
i personaggi venire incontro allo spettatore, o ci lascia guardare con gli
occhi del protagonista, in una soggettiva ripetuta, la sua piccola realtà com’è
contenuta dal contorno del parabrezza della macchina. Uno steccato, limite
invalicabile che non lascia scorgere prospettive di futuro, di infinito, ma il
luogo di cene silenziose, di menu invariati, di una sconsolata rassegnazione. Un buon film.
Pomeriggio con l’appuntamento, ormai fisso, della proiezione
delle 17 in Sala Darsena, giornate degli autori. Il gemello, un altro film
italiano, di Vincenzo Marra. Girato nel carcere di Secondigliano, protagonista
un ispettore di polizia penitenziaria ed un detenuto, tra gli altri, che
dichiara la sua storia dicendo : “Ho 29 anni, ne ho fatti 12 di carcere, per me
mamma e papà sono i muri. (del carcere, ndr)”. La vita quotidiana, le pulizie
in cella, i delicati rapporti con gli altri detenuti, il compagno di cella da
cambiare, gli sfottò – alla fine divento come lui, una porchetta con il limone
in bocca o un panettone con i piedi- in un film che si segue davvero volentieri, e che
ti fa sbirciare in una realtà come quella carceraria che negli ultimi anni è
stata spesso rappresentata, in modi diversissimi (anche qui alla Mostra, con
Tango Libre nella sezione Orrizonti), sullo schermo, ma che questa volta ha il
sapore e il pregio della realtà, un sapore di verità. O di una sua faccia.
Rispondendo all’interrogativo del regista, cioè se fare un film cambi la vita
di qualcuno. Dalla lettera letta in sala, inviata al regista dallo stesso
detenuto, pare proprio di sì. Un cambiamento almeno nel mondo interiore, nel
cuore.

La saggezza dell’età mi ha fatto uscire dalla proiezione
delle 1930 per concedermi un po’ di riposo, un pasto che non fosse il solito
panino, e la compagnia di Angela, per poi affrontare l’ultima e dirompente (ma questo l’ho
scoperto solo dopo) proiezione della serata: Spring Breakers.
Il film che ha dato una scossa a questa Mostra.
Un lido, una spiaggia della California, ben
diversa da quella veneziana, dove l’età media non supera i 25 anni mentre abbondantemente
sopra la media sono il tasso alcoolico e lo stato di eccitazione, una smania
febbrile di portare all’estremo più alto, all’eccesso, qualsiasi esperienza, un
cocktail di sesso, droga e
rock&roll, come si diceva un tempo, shakerati con alcool e violenza. Ma ciò che il film ha di strepitoso è proprio
il modo in cui tutto è raccontato, con quella stessa frenesia ed eccesso che da
contenuto si fa anche forma del racconto, mettendo a proprio servizio tutto il
dizionario del linguaggio cinematografico. Ed ecco il magnifico piano sequenza
della rapina, il James Franco diversamente dentato che si produce in una
performance canora sulle note di Everytime di Britney Spears, i passamontagna abbinati
ai bikini (non vi fate domande fino a che non avrete visto il film!), ritmo,
violenza, grande montaggio e fotografia, bellissime trovate narrative. Il film
scandalo? E così sia, se proprio bisogna etichettare, incasellare. Pensa che sia l’estetica di Mtv ad aver
condizionato la strada o è la strada che ha dato vita all’estetica di MTV? A
tale domanda, in conferenza stampa, il regista, Harmony Korine, si è prima
guardati intorno, e poi ha risposto un definitivo ed incisivo: “ I DO NOT KNOW!”.
Domani ultimo vero giorno di Mostra...sigh!
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