Nuova domenica, nuova proposta di Farnese CinemaLab. Questa volta il film che proponiamo ai docenti è un'anteprima, e stiamo parlando di Vita di Pi, il nuovo film di Ang Lee.
Cosa aggiungere? Non resta che vederci domani mattina, ore 1030, davanti al Cinema Farnese, per una nuova mattinata di cinema!
sabato 15 dicembre 2012
domenica 2 dicembre 2012
Leonardo Di Costanzo al Cinema Farnese Persol
sabato 1 dicembre 2012
Farnese CinemaLab - L'intervallo - proiezione e incontro con il regista - domenica 2 Dicembre, ore 1030
Farnese CinemaLab inaugura alla grande il mese di Dicembre con la proiezione del più bel film italiano visto alla 69 Mostra del cinema di Venzia. Stiamo parlando de L'intervallo di Leonardo Di Costanzo. E ad accompagnare in sala il film sarà lo stesso regista, che ha gentilmente accettato il nostro invito.
Non ci sono dunque scuse che tengano: appuntamento imperdibile! Domenica 2 Dicembre, ore 1030, Cinema Farnese Persol.
Non ci sono dunque scuse che tengano: appuntamento imperdibile! Domenica 2 Dicembre, ore 1030, Cinema Farnese Persol.
sabato 20 ottobre 2012
Detachment - domenica 21 ottobre 2012 - proiezione per docenti Cinema Farnese Persol
Non c'è due senza tre! Eccoci al terzo appuntamento domenicale con le matinèe domenicali dedicate ai docenti. E continua il ciclo di film che hanno al centro la scuola, il rapporto tra docenti e allievi. Questa volta, in cattedra, Adrien Brody. Il film, Detachment. Vi aspettiamo!
lunedì 15 ottobre 2012
Fenomeni estremi? Solo quelli organizzati da Farnese CinemaLab
sabato 13 ottobre 2012
Domenica ecologica? Tutti al cinema!
Quale miglior modo di celebrare la domenica ecologica proclamata dal sindaco che raggiungere, a piedi, in bicicletta o con i mezzi pubblici il Cinema Farnese Persol, per assistere alla proiezione del film Monsieur Lazhar, proiezione domenicale dedicata, come sempre, ai docenti, ed organizzata da Farnese CinemaLab? Vi aspettiamo, dunque, domani mattina, alle ore 1030, per guardare ascoltare insieme la storia di una "crisalide/crisantemo".
domenica 7 ottobre 2012
Tutti in classe...al Farnese! In cattedra Giuseppe Piccioni.
Un ringraziamento speciale al regista, Giuseppe Piccioni, che ha anticipato il suo rientro a Roma pur di non mancare all'appuntamento, mostrando una cortesia ed una disponibilità fuori dal comune. Ma questo è solo l'inizio, e visto l'entusiasmo della partecipazione, vi annunciamo già il secondo appuntamento, domenica prossima, 14 Ottobre, ore 1030, con Monsieur Lazhar. La scuola continua ad essere protagonista, sullo schermo e in sala, delle matinèe domenicali diFarnese CinemaLab. Buona settimana e soprattutto buon cinema!
sabato 6 ottobre 2012
Si ricomincia! Proiezione per docenti - 7 ottobre 2012, ore 1030
Si ricomincia! Con l'inizio della scuola si torna sui banchi, e con Farnese CinemaLab si torna in sala, nelle comode poltrone che non aspettano altro che di accogliere docenti e dirigenti scolastici per le consuete proiezioni domenicali a loro riservate.
E quale miglior film che Il rosso e il blu, di Giuseppe Piccioni, ambientato in una scuola romana, per dare inizio all'anno scolastico-cinematografico? I docenti avranno modo di confrontarsi con i colleghi impersonati da Margherita Buy, Riccardo Scmarcio e Roberto Herlitzka, e di esprimersi sulla loro capacità, unita a quella del regista, di raccontare la realtà della scuola.
Vi aspettiamo, numerosi come sempre, domenica 7 ottobre, ore 1030, al Cinema Farnese Persol.
E quale miglior film che Il rosso e il blu, di Giuseppe Piccioni, ambientato in una scuola romana, per dare inizio all'anno scolastico-cinematografico? I docenti avranno modo di confrontarsi con i colleghi impersonati da Margherita Buy, Riccardo Scmarcio e Roberto Herlitzka, e di esprimersi sulla loro capacità, unita a quella del regista, di raccontare la realtà della scuola.
Vi aspettiamo, numerosi come sempre, domenica 7 ottobre, ore 1030, al Cinema Farnese Persol.
domenica 9 settembre 2012
Estasi da Brillante
Giovedì al Lido si
cominciava già a respirare l’aria di fine mostra. Persone con le valigie, folla
che scema, la consapevolezza che ci si avvia alla conclusione di un periodo,
come quello di un festival del cinema, in cui si vive in una sorta di
sospensione dalla realtà e dal tempo. La giornata è infatti scandita dagli
orari delle proiezioni, ci si insegue telefonicamente con amici e colleghi per
riuscire a prendere un caffè, si corre da una parte all’altra per non perdere
quel film che sembra sia lì pronto a cambiarti la vita, e quando ci si incontra
(e al Lido è impossibile non incontrarsi… ci si sbatte addosso, praticamente,
ho visto quest’anno gente con cui ero in fila gli anni passati, anche se non li
conosco direttamente!). Ho iniziato la giornata con il film fuori concorso di
Robert Redford, The Company you keep.
Un film…tranquillo, nel senso che sai cosa aspettarti, classico film
americano, in cui Redford non si smentisce, che si lascia guardare. Con dei
dialoghi serratissimi che mi sono piaciuti molto, quello tra il personaggio
interpretato da Susan Sarandon, imprigionata, e il giornalista incarnato da
Shia Lebeuf, quelli tra il giornalista e lo stesso Redford, e altri ancora. La
cosa più brutta di questo film è il fatto che Redford abbia scelto per se il
ruolo del protagonista. Non perché non sia un bravo attore, ma la sua età non
combaciava con quella del protagonista, ed è stato imbarazzante vederlo
correre, con le gambette magre ed il ventre un po’ gonfio (lo so, sembro impietosa…ma
ho provato davvero un po’ di tristezza in quelle scene), con il fisico di un
uomo che non ha l’età che il personaggio del film vorrebbe far credere. Bello invece vederlo in conferenza stampa,
spiritoso e affascinante come sempre. Una giornalista tedesca: “ We know you have a wonderful german wife”.
Redford:”How do you know she is wonderful?” Giornalista: “I saw her on films”. Redford:”
Don’t trust what you see on films.”
Ma il bello della giornata è arrivato con il film successivo,
Sinapupuna (Thy Womb) di Brillante
Mendoza. Beh, questo era per me il film che doveva vincere il leone d’oro. Ne
sono uscita estasiata. Perché la maestria del regista si sposa con il racconto
del film, e i pregi della sua direzione non sono pura esibizione di bravura,
fini a sé stessi, ma eccellenti strumenti di narrazione, che esaltano il
racconto per immagini di una storia d’amore, di un amore profondo che si spinge
oltre un limite che possiamo comprendere, anche perché comunque inserito in una
cultura diversa dalla nostra. Che il film ci porta a scoprire, attraverso un
viaggio alla ricerca di una sposa fertile , una seconda moglie, ma senza
guardare questa cultura con quell’interesse antropologico che il regista non
può avere, essendo la sua cultura di provenienza, ma facendoci davvero entrare
nelle case, o meglio, nelle palafitte, cullati dal dondolio della camera a
rendere il movimento dell’acqua circostante, protagonista anch’essa del film,
aprendoci un varco nel cuore della protagonista, oppure tra le fila di una
comunità riunita in preghiera (bellissima immagine, ripresi di spalle, nei loro
coloratissimi abiti, su di una spiaggia…e mentre guardavo questa scena mi è
venuto in mente un paragone surreale, e chi lo ha visto concorderà con l’aggettivo,
con la scena iniziale della spiaggia,
anche lì, coloratissima, di Spring Breakers…confronto di costumi, e non da
bagno!), nei semplici ed ordinari gesti della vita quotidiana, la pesca , il
mercato, il macello di un animale, i matrimoni.
Spingendosi con la camera nelle profondità o in superficie, rimanendo
sospesi sul pelo dell’acqua, a raccontare, attraverso l’impercettibile velo di
lacrime della protagonista, l’amore sterile per il suo uomo che darà invece il
suo frutto attraverso il gesto d’amore della rinuncia. Per permettere all’amore
di compiere la sua parabola, e chiudere il film così come era iniziato: con la
ripresa di un parto, di una nascita, della vita.
Consueto appuntamento pomeridiano in sala Darsena con quella
che potremmo definire una tragi-commedia, una commedia grigia, se non proprio
nera. Il film è Keep smiling, di Rusudan
Chkonia, registra georgiana. La storia è quella di un concorso di bellezza per
madri, e a partecipare è un gruppo eterogeneo di donne, ognuna con la sua più o
meno accentuata disperazione. Buon ritmo, il film si segue piacevolmente nell’esplorazione
delle piccole e grandi tragedie, delle meschinità, mettendo in ridicolo il
mondo della televisione e le sue regole e l’assenza di dignità che chiede.
Dignità che però le donne protagoniste non sono disposte a perdere. Fino alle
estreme conseguenze. Buona opera prima.
A seguire il film russo Me
too, di Alexej Balabanov. Un film, secondo me, troppo russo per poter essere
apprezzato altrove…e sapete quale debole ho per la loro cinematografia! Qualche
buona idea, qualche risata per le
situazioni grottesche e l’ironia sulla categoria dei registi, un viaggio alla
ricerca della felicità, attraverso un campanile. Strampalato, surreale…non
completamente riuscito.
Ancora tre film per il prossimo post...e poi saranno considerazioni finali!Ancora film dal pianeta Venezia (fuso orario 4 giorni!)
Ma il film ha riscosso comunque, in generale, un gradimento, e Bellocchio, forse per questo, era particolarmente contento , spiritoso e disinvolto in conferenza stampa. Ad un giornalista che gli ha chiesto se il suo fosse un film politico ha risposto: “Mi viene in mente quel film di Moretti in cui si dice: ma la lotta di classe, dov’è la lotta di classe?
Subito dopo è stata la volta di O GEBO E A SO OMBRA, il film di Manuel de Oliveira. Un film
stellare, nel cast, se vi nomino Micheal Londsdale, Claudia Cardinale, Jeanne
Moreau, per citarne alcuni. Un film basato su di una piece teatrale e che tale
impianto teatrale si porta dietro. Un film di parola, quasi completamente
girato in un’unica stanza, anzi, oserei dire, in un’unica parte della stanza,
visto che la camera è pressochè fissa ad inquadrare Micheal Londsdale che
scrive, lavora, facendo i conti, e chi si siede accanto a lui, la moglie, la
nuora, un amico. E qui, in questo film
così lontano dagli altri del festival , si tocca un tema già presente in un
film diversissimo, come Pietà di Kim Ki-duk, cioè quello del denaro, intorno a
cui ruota la vicenda familiare rappresentata. Perché è il denaro che manca a
questa famiglia, che vive in ristrettezza, è il denaro che il padre conta e
annota, facendo il contabile, è il denaro che il figlio sciagurato, prima
assente e poi figliol prodigo senza pentimento, ruba gettando la sua famiglia
nello sconforto e soprattutto il padre in galera, visto che si assume la
responsabilità del furto. E alle parole di conforto che cercano di rivolgersi,
questo padre, agnello sacrificale, risponde: “Quando si toccano i soldi, non si
perdona mai.”. Bello ma faticoso nel vedersi per il suo impianto narrativo.
Pausa da visioni per assistere alla conferenza stampa di
Spring Breakers e Bella addormentata e poi nel pomeriggio è stata la volta del
consueto appuntamento con il film delle 17 in Sala Darsena, per le Giornate
degli autori. Sto parlando di Heritage di
Hiam Abbas, una regista palestinese, famosa soprattutto come attrice (la
ricorderete nell’Ospite inatteso, protagonista de Il giardino dei limoni e
tanti altri film). Il film, Heritage,
racconta la storia di una famiglia palestinese che sembra aver raggiunto un
punto di rottura. Ogni componente della famiglia ha il suo dramma, chi sta
fallendo economicamente, chi nel suo matrimonio, il padre che va in coma, la
figlia che cerca di vivere il suo amore per uno straniero, ribellandosi ai
dettami della sua cultura e delle tradizioni…ed è questo certamente l’episodio
centrale, che indaga, in questo come in tanti altri film di questa mostra, la
condizione della donna raccontata da una regista donna, anche se la stessa Hiam
Abbas, nell’incontro a fine film, ha preso le distanze dal concetto di
solidarietà femminile con cui si voleva etichettare il film, perché a lei
interessa l’essere umano, e vanno tralasciate le distinzioni tra i sessi, le
divisioni, e tutti i personaggi, uomini o donne che siano, hanno in sé il bene
e il male, non solo di quella società ma del genere umano. Discreto.
Subito dopo è stata la volta di un film che invece mi ha
molto colpito, tanto che l’ho seguito
con un groppo allo stomaco (o forse era la fame, direte voi?). Sto parlando de La Cinquieme Saison, un film potente,
evocativo, che mi è piaciuto molto, ma che sicuramente non è per tutti (lo dico
a tutela di amici che, bontà loro, seguono i miei suggerimenti cinematografici.
Sicuramente possono vederlo Antonella, Alessandro, Andrea, Dompa…astenersi non
cinefili!). Un film sulla natura, ma
soprattutto sul legame tra l’uomo e la natura, in un rapporto proporzionale di
distruzione, di regresso. Accade dunque che la natura si ribelli, nel film, non
attraverso le catastrofi che possiamo immaginare, ma in un percorso di
sottrazione, in cui le stagioni non esistono più, la legna non brucia, il seme
nella terra non germoglia e tutto torna indietro, specialmente l’uomo, ad una
primitività mostruosa. E la felice collettività che ballava compatta sulla
collina per salutare il generale inverno (con delle immagini straordinarie, che
sembrano uscire dal pennello di un pittore), regredisce compatta fino a perdere
le individualità nascoste dietro una maschera bianca che non perdona coloro
che, pur nella tragedia, un volto, una responsabilità, una coscienza, un
pensiero critico lo hanno ancorae che preferiscono essere "l'uomo del paradosso che del pregiudizio." Il tutto intervallato dal racconto del
rapporto tra il suo padrone e il gallo Fred, in una sorta di sintesi e profezia
della parabola tragica di un mondo che, come il gallo Fred, non canta più, a
causa di un branco di struzzi…meditate gente!
Dopo aver trangugiato un Veggy Smith sandwich, insieme a
Donatella ho visto Bellas Mariposas
di Salvatore Mereu. Film che mi ha strappato
qualche risata, con lo strampalato racconto di una ragazzina che dialoga con la
macchina da presa che la sta riprendendo, nel raccontare la sua sconclusionata
famiglia che vive nella periferia di Cagliari. Ma, devo essere onesta, non mi
sento di dare un giudizio sul film, perché molto spesso, durante la proiezione,
la palpebra andava giù. Mi è sembrato ci fossero buone idee, forse tutte non pienamente riuscite nella
realizzazione, ma non sono uscita inorridita…giudizio sospeso.
giovedì 6 settembre 2012
Metti un James Franco in scena!
La giornata di martedì si è aperta sotto i migliori auspici,
con il primo lungometraggio di Leonardo Di Costanzo, L'intervallo, un film italiano, dunque,
che arriva da Napoli. E che racconta semplicemente la giornata trascorsa
insieme da due ragazzi, 15 e 17 anni, prigioniera l’una, carceriere per un
giorno l’altra. I motivi, il perché di tale reclusione in una villa
abbandonata, saranno il punto di arrivo, a fine giornata, lungo la strada
tracciata dalla stessa narrazione che i
due ragazzi fanno di sé stessi attraverso i dialoghi, i giochi, le favole, in una caccia al tesoro della conoscenza,
della fiducia, di un rapporto interpersonale che percorre i luoghi, nascosti,
misteriosi, evocativi come l’acqua che i due solcano sulle ali della fantasia,
dell’incontro, del dialogo. Ed è bello seguirli con la camera in questo viaggio
al centro di sé stessi, illuminato da
una fotografia che non ha paura della nitidezza dei colori (il solito, grande,
Luca Bigazzi), di lasciar parlare quella rappresentanza di natura dentro e
fuori la villa abbandonata, gli uccelli, i cardellini, “che sono meglio del
meteo, perché hanno un olio sotto le piume , e quando deve piovere, se lo
passano sulle piume, come un impermeabile”, il ristagno dell’acqua, che “se non
fosse così sporco sembrerebbe la Grotta azzurra”, il tuono, che “dicono sia il
rumore della carrozza quando il diavolo porta a spasso la moglie. Un film che
ci lascia con una domanda: “Hai visto, non sono scappata. E tu, l’hai trovata
la strada?”.
Primo pomeriggio in compagnia di MenatekHa-Main (The Cutoff
Man) di Idan Hubel. Un mestiere scomodo, quello di staccare l’acqua ai debitori
insolventi con il comune, un mestiere che ovviamente si sceglie non per
vocazione, e che si cerca di svolgere di nascosto. La camera, spesso fissa, ad
indicare una realtà statica, dove sembra impossibile il cambiamento, ci mostra
i personaggi venire incontro allo spettatore, o ci lascia guardare con gli
occhi del protagonista, in una soggettiva ripetuta, la sua piccola realtà com’è
contenuta dal contorno del parabrezza della macchina. Uno steccato, limite
invalicabile che non lascia scorgere prospettive di futuro, di infinito, ma il
luogo di cene silenziose, di menu invariati, di una sconsolata rassegnazione. Un buon film.
La saggezza dell’età mi ha fatto uscire dalla proiezione delle 1930 per concedermi un po’ di riposo, un pasto che non fosse il solito panino, e la compagnia di Angela, per poi affrontare l’ultima e dirompente (ma questo l’ho scoperto solo dopo) proiezione della serata: Spring Breakers.
Il film che ha dato una scossa a questa Mostra.
Un lido, una spiaggia della California, ben
diversa da quella veneziana, dove l’età media non supera i 25 anni mentre abbondantemente
sopra la media sono il tasso alcoolico e lo stato di eccitazione, una smania
febbrile di portare all’estremo più alto, all’eccesso, qualsiasi esperienza, un
cocktail di sesso, droga e
rock&roll, come si diceva un tempo, shakerati con alcool e violenza. Ma ciò che il film ha di strepitoso è proprio
il modo in cui tutto è raccontato, con quella stessa frenesia ed eccesso che da
contenuto si fa anche forma del racconto, mettendo a proprio servizio tutto il
dizionario del linguaggio cinematografico. Ed ecco il magnifico piano sequenza
della rapina, il James Franco diversamente dentato che si produce in una
performance canora sulle note di Everytime di Britney Spears, i passamontagna abbinati
ai bikini (non vi fate domande fino a che non avrete visto il film!), ritmo,
violenza, grande montaggio e fotografia, bellissime trovate narrative. Il film
scandalo? E così sia, se proprio bisogna etichettare, incasellare. Pensa che sia l’estetica di Mtv ad aver
condizionato la strada o è la strada che ha dato vita all’estetica di MTV? A
tale domanda, in conferenza stampa, il regista, Harmony Korine, si è prima
guardati intorno, e poi ha risposto un definitivo ed incisivo: “ I DO NOT KNOW!”.
Domani ultimo vero giorno di Mostra...sigh!
Dopo questo gioiellino, stessa sala, la Perla, stesso posto,
per assistere a Linhas de Wellington, un film in costume, durata 2 ore e 30
minuti, frutto del lavoro del regista Ruiz, scomparso prima della
realizzazione, e portato sullo schermo dalla sua compagna, Valeria
Sarmiento. Lungo, ma alla fine si vede,
più televisivo che cinematografico, può servire per un ripasso di storia, e per
conoscere la ricetta del filetto alla Wellington, che lo stesso generale, con
il volto inconfondibile di John Malcovich, spiega al pittore con cui
interloquisce. Piccolo cameo per Mathieu Amalric nei panni di Napoleone (dire
piccolo cameo è troppo, visto che lo vediamo sullo schermo per 2 secondi e
mezzo!), e bel siparietto della cena che vede come commensali Isabelle Huppert,
Michel Piccoli e Catherine Denevue. Si può perdere.
Pomeriggio con l’appuntamento, ormai fisso, della proiezione
delle 17 in Sala Darsena, giornate degli autori. Il gemello, un altro film
italiano, di Vincenzo Marra. Girato nel carcere di Secondigliano, protagonista
un ispettore di polizia penitenziaria ed un detenuto, tra gli altri, che
dichiara la sua storia dicendo : “Ho 29 anni, ne ho fatti 12 di carcere, per me
mamma e papà sono i muri. (del carcere, ndr)”. La vita quotidiana, le pulizie
in cella, i delicati rapporti con gli altri detenuti, il compagno di cella da
cambiare, gli sfottò – alla fine divento come lui, una porchetta con il limone
in bocca o un panettone con i piedi- in un film che si segue davvero volentieri, e che
ti fa sbirciare in una realtà come quella carceraria che negli ultimi anni è
stata spesso rappresentata, in modi diversissimi (anche qui alla Mostra, con
Tango Libre nella sezione Orrizonti), sullo schermo, ma che questa volta ha il
sapore e il pregio della realtà, un sapore di verità. O di una sua faccia.
Rispondendo all’interrogativo del regista, cioè se fare un film cambi la vita
di qualcuno. Dalla lettera letta in sala, inviata al regista dallo stesso
detenuto, pare proprio di sì. Un cambiamento almeno nel mondo interiore, nel
cuore.
La saggezza dell’età mi ha fatto uscire dalla proiezione delle 1930 per concedermi un po’ di riposo, un pasto che non fosse il solito panino, e la compagnia di Angela, per poi affrontare l’ultima e dirompente (ma questo l’ho scoperto solo dopo) proiezione della serata: Spring Breakers.
Domani ultimo vero giorno di Mostra...sigh!
mercoledì 5 settembre 2012
I film di lunedì ovvero come fuggire da Malick
La giornata di lunedì è stata altrettanto prolifica, ma con
una sbavatura iniziale. Mi sono concessa un po’ di riposo mattutino, nel senso
che la sveglia è suonata alle 0830 ( e chi mi conosce sa quanto dormirei
volentieri di più la mattina, essendo andata a dormire non prima delle due e
mezzo!), e poi via al Pala-biennale per recuperare il film di Malick, To the Wonder. Vi dico solo questo:
ho lasciato la sala dopo soli 45 minuti, per evitare di alzarmi in piedi nella sala e urlare, con l’obiettivo di
fermare l’incessante ed estenuante (per lo spettatore) svolazzare della
protagonista sullo schermo. Una gatta morta di quelle che ti strappano le botte
dalle mani, e per ovviare a questo accesso di violenza che prendeva corpo nella
mia mente, ho abbandonato il campo, correndo a vedere un film che invece mi è
piaciuto molto. Sto parlando di Apres
Mai, di Assayas. Ho sentito in
televisione, in uno dei servizi sulla Mostra, che veniva definito un film su
degli studenti. Ma, quello che veniva omesso, colpevolmente, è che questi
studenti, fotografati nell’estate del
passaggio dalla scuola all’università, sono gli studenti del 1972, in
Francia, e quello che viene
raccontato, in maniera mirabile, sono
le loro storie d’amore, di impegno
politico, di lotta, di militanza, di sogni,
di viaggio, ma soprattutto, un’epoca. Con il pregio di essere riuscito, il regista, a
restituire in maniera precisa e puntuale quel momento storico, in un lavoro di
ricostruzione, ma senza alcuna operazione nostalgia, facendo vibrare sullo
schermo la vivacità , la nitidezza, l’esuberanza , le passioni, la ricerca, le
derive, di questi giovani uomini e donne
alle prese con un momento fondamentale non solo della loro vicenda personale ma
di quella, più generale, della società di quel tempo. Con alcune battute
meravigliose, che rappresentano già una sintesi del momento storico: “Vogliamo
un’informazione libera al servizio della rivoluzione interna” (ma non era libera??
ndr), “Ma il cinema rivoluzionario non dovrebbe adottare una sintassi
rivoluzionaria? – No, perché sarebbe uno shock per il proletariato”. E la
bellissima immagine conclusiva di uno dei protagonisti, sul set del film di fantascienza
cui sta lavorando a Londra, è quella del la sua ombra proiettata sullo schermo
della sua rinuncia, in senso neutro: la rinuncia ad un’età, con tutto il
relativo bagaglio, per passare, nel bene e nel male, al mondo della vita
adulta, ad un’altra, è proprio il caso di dirlo, epoca.
A seguire, sempre nella mitica Sala Perla, il documentario di Daniele Vicari La nave dolce. Una storia, quella della nave Vlora, che ricordo benissimo, perché era l’estate della mia maturità classica, ma soprattutto , con tutta la classe, avevamo vissuto i 100 giorni con una gita a Roma che si era conclusa con la partecipazione, tra il pubblico, al Maurizio Costanzo Show. E quella sera (era dunque il periodo febbraio-marzo), la puntata era stata dedicata in maniera monografica, all’arrivo di immigrati albanesi, che infatti, in numero di circa 200, riempivano i posti della platea. Dunque un anno, il 1991, segnato dall’arrivo di questa massa di persone, attirate da un’immagine dell’Italia creata ed edulcorata dalla televisione. Interessante ascoltare le parole odierne dei testimoni, la loro sincera commozione in sala, a 20 anni dal fatto, e vedere le immagini di repertorio, in cui, purtroppo, la politica non fa una gran bella figura. Ieri come ora.
Il successivo film è stato sempre un italiano, Acciaio, di Stefano Mordini. Tratto dall’omonimo romanzo della Avallone, che non ho letto, il film sconta forse il fatto di non essere riuscito ad affrancarsi dal racconto letterario. Il racconto risulta un po’ frammentato, con delle prevedibilità annunciate in corso d’opera, e una recitazione che non mi ha convinto, nonostante ritenga Michele Riondino un bravissimo attore. Ma l’accento toscano era altalenante con qualche romanità e altre interferenze. Sicuramente rilevante, invece, e attualissimo, il tema di una provincia in cui le prospettive di lavoro sono legate ad un’unica realtà di fabbrica, che domina e caratterizza la zona con la sua presenza. Qui sono le acciaierie a Piombino, ma viene sicuramente in mente l’Ilva di Taranto e la sua situazione attuale e tante altre declinazioni dello stesso fenomeno.
Ma il bello è arrivato subito dopo, con il film Pietà di Kim ki-duk. Forse sono in una fase sadica della vita, non so, ma le crudeltà rappresentante nel film e la crudezza con cui vengono rappresentate, questa volta, rispetto a tanti altri film visti negli anni passati ai festival, non hanno scalfito il piacere della visione del film. Forse perché non mi è sembrata una crudeltà pretestuosa, forse perché il film è girato in maniera magistrale, ogni dettaglio curato fino all’inverosimile (ci sono scorci di immondizia che potrebbero essere stati dipinti da un Caravaggio, tanto sono pregnanti e vivi, come la sua pittura! Ndr), l’immagine che sobbalza perché sentiamo il sonoro di uno schiaffo che viene dato fuori campo, e poi il tema del denaro quale motore e caposaldo di ogni criterio di giustizia, della crudeltà. “Il denaro è l’inizio e la fine di tutte le cose. Amore, rabbia, vendetta…” viene detto nel film. E muove anche la vicenda che si snoda lungo i percorsi delle sofferenze atroci delle vittime e dei familiari, e la solitudine e la crudeltà del carnefice, che cade, ingenuamente nella rete dell’amore materno. Di un amore che viene abusato, che diventa ossessione, e che sembra sporgersi, come da un balcone, sul precipizio di una pietà che nasce dalla vendetta, e che si getta nel vuoto delle note di un Agnus Dei. Da vedere. Astenersi deboli di visione!
Dopo la leggera passeggiata che è stato il film coreano, la serata si è conclusa con un film che mi ha letteralmente inchiodato alla poltrona, coinvolgendomi in maniera inaspettata. Sto parlando di Disconnect, un film fuori concorso, che racconta storie di ordinaria deriva di sentimenti, di solitudini, incomprensioni, incomunicabilità, che sfociano in episodi più o meni tragici, passando attraverso la vita virtuale che tutti ci siamo più o meno costruiti sul web. Ed ecco dunque i rimpianti, i silenzi, i rimorsi, le lacrime. Un film che non ha particolarità da rilevare, se non l’intreccio delle storie, ma che ha la capacità di catturare l’attenzione, fino alla fine, regalando anche un finale che fortunatamente non sfocia nella prevedibilità dell’happy end, ma lascia aperte le varie possibilità.
E ora, che dite, non è il caso che vada a dormire, visto che domani mi aspettando altri cinque film e la scrittura del resoconto dei 10 film visti tra martedì e mercoledì? Sempre indietro di due giorni di fuso orario, la vostra inviata al Lido di Farnese cinemaLab vi saluta!
A seguire, sempre nella mitica Sala Perla, il documentario di Daniele Vicari La nave dolce. Una storia, quella della nave Vlora, che ricordo benissimo, perché era l’estate della mia maturità classica, ma soprattutto , con tutta la classe, avevamo vissuto i 100 giorni con una gita a Roma che si era conclusa con la partecipazione, tra il pubblico, al Maurizio Costanzo Show. E quella sera (era dunque il periodo febbraio-marzo), la puntata era stata dedicata in maniera monografica, all’arrivo di immigrati albanesi, che infatti, in numero di circa 200, riempivano i posti della platea. Dunque un anno, il 1991, segnato dall’arrivo di questa massa di persone, attirate da un’immagine dell’Italia creata ed edulcorata dalla televisione. Interessante ascoltare le parole odierne dei testimoni, la loro sincera commozione in sala, a 20 anni dal fatto, e vedere le immagini di repertorio, in cui, purtroppo, la politica non fa una gran bella figura. Ieri come ora.
Il successivo film è stato sempre un italiano, Acciaio, di Stefano Mordini. Tratto dall’omonimo romanzo della Avallone, che non ho letto, il film sconta forse il fatto di non essere riuscito ad affrancarsi dal racconto letterario. Il racconto risulta un po’ frammentato, con delle prevedibilità annunciate in corso d’opera, e una recitazione che non mi ha convinto, nonostante ritenga Michele Riondino un bravissimo attore. Ma l’accento toscano era altalenante con qualche romanità e altre interferenze. Sicuramente rilevante, invece, e attualissimo, il tema di una provincia in cui le prospettive di lavoro sono legate ad un’unica realtà di fabbrica, che domina e caratterizza la zona con la sua presenza. Qui sono le acciaierie a Piombino, ma viene sicuramente in mente l’Ilva di Taranto e la sua situazione attuale e tante altre declinazioni dello stesso fenomeno.
Ma il bello è arrivato subito dopo, con il film Pietà di Kim ki-duk. Forse sono in una fase sadica della vita, non so, ma le crudeltà rappresentante nel film e la crudezza con cui vengono rappresentate, questa volta, rispetto a tanti altri film visti negli anni passati ai festival, non hanno scalfito il piacere della visione del film. Forse perché non mi è sembrata una crudeltà pretestuosa, forse perché il film è girato in maniera magistrale, ogni dettaglio curato fino all’inverosimile (ci sono scorci di immondizia che potrebbero essere stati dipinti da un Caravaggio, tanto sono pregnanti e vivi, come la sua pittura! Ndr), l’immagine che sobbalza perché sentiamo il sonoro di uno schiaffo che viene dato fuori campo, e poi il tema del denaro quale motore e caposaldo di ogni criterio di giustizia, della crudeltà. “Il denaro è l’inizio e la fine di tutte le cose. Amore, rabbia, vendetta…” viene detto nel film. E muove anche la vicenda che si snoda lungo i percorsi delle sofferenze atroci delle vittime e dei familiari, e la solitudine e la crudeltà del carnefice, che cade, ingenuamente nella rete dell’amore materno. Di un amore che viene abusato, che diventa ossessione, e che sembra sporgersi, come da un balcone, sul precipizio di una pietà che nasce dalla vendetta, e che si getta nel vuoto delle note di un Agnus Dei. Da vedere. Astenersi deboli di visione!
Dopo la leggera passeggiata che è stato il film coreano, la serata si è conclusa con un film che mi ha letteralmente inchiodato alla poltrona, coinvolgendomi in maniera inaspettata. Sto parlando di Disconnect, un film fuori concorso, che racconta storie di ordinaria deriva di sentimenti, di solitudini, incomprensioni, incomunicabilità, che sfociano in episodi più o meni tragici, passando attraverso la vita virtuale che tutti ci siamo più o meno costruiti sul web. Ed ecco dunque i rimpianti, i silenzi, i rimorsi, le lacrime. Un film che non ha particolarità da rilevare, se non l’intreccio delle storie, ma che ha la capacità di catturare l’attenzione, fino alla fine, regalando anche un finale che fortunatamente non sfocia nella prevedibilità dell’happy end, ma lascia aperte le varie possibilità.
E ora, che dite, non è il caso che vada a dormire, visto che domani mi aspettando altri cinque film e la scrittura del resoconto dei 10 film visti tra martedì e mercoledì? Sempre indietro di due giorni di fuso orario, la vostra inviata al Lido di Farnese cinemaLab vi saluta!
martedì 4 settembre 2012
Una domenica in Mostra
Domenica, quarta giornata dalla Mostra. Il film di apertura
è stato uno dei più attesi, cioè The Master, di Paul Thomas Anderson. Un film lungo, a cui come al solito avrebbe
giovato una piccola sforbiciata (sono per le durate più contenute...tranne per alcuni intoccabili registi che possono permettersi qualsiasi cosa!), ma comunque un film di quelli che si tende a
definire “un filmone”, con tutto il buono e il cattivo che tale connotazione
porta con sé. Un film girato benissimo,
manco a dirlo, che magari, proprio per la lunghezza e il reiterarsi dei temi e delle
situazioni, si vede con un po’ di fatica, ma che comunque dovrebbe essere
visto, e rigorosamente in originale, per la maestosità, incredibile e superiore
qualità, l’eccellenza, e tutti i sinonimi che riuscite a trovare, di Philip
Seymour Hoffman, che giganteggia con il suo volto, le sue espressione e,
soprattutto con la sua voce. Voce con cui il suo personaggio predica,
pontifica, urla, canta. Coppa Volpi, almeno per me. Scandaloso se così non fosse. A fare da contraltare a questo “sacerdote” della nostra moderna
ricerca di senso, quale che sia la strada per raggiungerlo, il suo doppio, il
suo negativo, biondo e tronfio il primo, tanto scuro e cupo, e fragile il
secondo. In un confronto serratissimo in cui tutto il resto non è che un grande
“affresco” di contorno, per usare un’espressione abusata nelle descrizioni di
film. E lo scuro, cupo, rabbioso personaggio è interpretato da un altrettanto
bravo Joaquin Phoenix, che forse a volte calca un po’ la mano
nell’interpretazione. Ma che ha suscitato in me delle emozioni estranee al
film, ricordandomi tanto, in alcune espressioni, con l’onda nei capelli, in
diversi primi piani, e uno sguardo verde ed intenso, il volto di mio padre.
Dopo un lauto pranzo domenicale da Scarso, con la bella e ridanciana compagnia di Surinder, Morris, Donatella e Loredana, è stata la volta di Clarisse, un documentario della Cavani girato nel convento delle clarisse di Urbino, con cui discute della loro vita, ma, anche e soprattutto, con esiti sorprendenti, della condizione della donna e del suo ruolo nella Chiesa. Sorprendenti, comunque, fino ad un certo punto, perché non ci si deve mai lasciar guidare dagli stereotipi, e quindi pensare alle suore come donne con una mentalità arretrata o censurata dal loro essere consacrate. Una testimonianza viva, bella, sincera, che fa davvero piacere ascoltare. "Siamo considerate inutili, perchè la preghiera è ritenuta inutile; è un'azione potente ma apparentemente senza potenza."
Fuggita dal film di Gitai, ma perché tutto parlato, essendo una testimonianza, che non potevo reggere dopo il pranzo da Scarso, mi sono poi concessa una pausa, per proseguire con il francese Cherchez Hortense, di Pascal Bonitzer, consigliato da molti. Una commedia con tante sfaccettature, molto ben scritta, ben recitata e ben diretta, che è stato davvero piacevole guardare nel pomeriggio in cui sono arrivati i primi cedimenti di stanchezza. Ve ne lascio una battuta. Durante un pranzo in cui, attraverso gli atteggiamenti che il padre ha nei confronti del cameriere, il figlio scopre, lui cinquantenne, che il padre ottantenne è gay, alla domanda diretta il padre risponde: "Non mi piacciono i ghetti identitatri ridicoli!".
Purtroppo non così è stato per il film successivo, Outrage Beyond di Kitano. Lo so, sento già i miei colleghi che mi dicono “ te lo dovevi aspettare, è un film giapponese”, ma questa è una lunga storia che nasce dalle nostre esperienze quotidiane, e che niente dovrebbe avere a che fare con il cinema! E invece! Ammetto il mio limite, ma sebbene riesca ad apprezzare la bravura della messinscena, della direzione, non così accade per il film nel complesso, e non riesco mai a capire se si tratta di me, o del valore del film. Poi sentire tutto il tempo l’eco delle voci di Tokito (per dirne uno, per chi lo conosce!) aveva un suo macabro aspetto di ricordarmi che la prossima settimana devono tornare in ufficio, ferie finite! Quindi, mi astengo dal giudizio, dichiarando la mia insofferenza per le due ore che ho vissuto in compagnia di questo film.

Per fortuna, e avevo già avuto rassicurazioni in merito da
chi lo aveva visto, la serata si è conclusa con il film della Bier, All you need is love. Bier, devo dire, che avevo trovato sopravvalutata
nel suo film precedente, e quindi temevo il peggio. Invece si tratta di un film
che si lascia guardare piacevolmente, senza infamia e senza lode, con contorno
di limoni, sole, mare, amore, Sorrento, e ovviamente mandolini, colpi di scena
(se vogliamo così chiamarli), happy end e un Pierce Brosnan che mette in mostra
sia la sua beltà che la sua pancia, ma credo, mostrata senza infingimenti
perché prevista da copione! Come a me ha mostrato la sua stempiatura! Ma anche il suo bel sorriso!
Dopo un lauto pranzo domenicale da Scarso, con la bella e ridanciana compagnia di Surinder, Morris, Donatella e Loredana, è stata la volta di Clarisse, un documentario della Cavani girato nel convento delle clarisse di Urbino, con cui discute della loro vita, ma, anche e soprattutto, con esiti sorprendenti, della condizione della donna e del suo ruolo nella Chiesa. Sorprendenti, comunque, fino ad un certo punto, perché non ci si deve mai lasciar guidare dagli stereotipi, e quindi pensare alle suore come donne con una mentalità arretrata o censurata dal loro essere consacrate. Una testimonianza viva, bella, sincera, che fa davvero piacere ascoltare. "Siamo considerate inutili, perchè la preghiera è ritenuta inutile; è un'azione potente ma apparentemente senza potenza."
Fuggita dal film di Gitai, ma perché tutto parlato, essendo una testimonianza, che non potevo reggere dopo il pranzo da Scarso, mi sono poi concessa una pausa, per proseguire con il francese Cherchez Hortense, di Pascal Bonitzer, consigliato da molti. Una commedia con tante sfaccettature, molto ben scritta, ben recitata e ben diretta, che è stato davvero piacevole guardare nel pomeriggio in cui sono arrivati i primi cedimenti di stanchezza. Ve ne lascio una battuta. Durante un pranzo in cui, attraverso gli atteggiamenti che il padre ha nei confronti del cameriere, il figlio scopre, lui cinquantenne, che il padre ottantenne è gay, alla domanda diretta il padre risponde: "Non mi piacciono i ghetti identitatri ridicoli!".
Purtroppo non così è stato per il film successivo, Outrage Beyond di Kitano. Lo so, sento già i miei colleghi che mi dicono “ te lo dovevi aspettare, è un film giapponese”, ma questa è una lunga storia che nasce dalle nostre esperienze quotidiane, e che niente dovrebbe avere a che fare con il cinema! E invece! Ammetto il mio limite, ma sebbene riesca ad apprezzare la bravura della messinscena, della direzione, non così accade per il film nel complesso, e non riesco mai a capire se si tratta di me, o del valore del film. Poi sentire tutto il tempo l’eco delle voci di Tokito (per dirne uno, per chi lo conosce!) aveva un suo macabro aspetto di ricordarmi che la prossima settimana devono tornare in ufficio, ferie finite! Quindi, mi astengo dal giudizio, dichiarando la mia insofferenza per le due ore che ho vissuto in compagnia di questo film.
domenica 2 settembre 2012
Sabato 1 settembre...Fill the void.
Sabato, terzo giorno di mostra, un giorno tranquillo…solo
tre film e mezzo, una conferenza e un concerto…giornata di riposo, insomma!
La mattina è partita con più calma, perché il primo appuntamento era l’incontro all’Excelsior di Schermi di qualità. Bello incontrare Cristina, Gianluca, Angela, ascoltare Gianni e gli altri interventi, e poi di corsa alla proiezione del film di Ciprì, è stato il figlio. So già che il mio giudizio non combacia con quello del resto del pubblico che era in sala e degli amici che lo hanno visto con me. Il film sta piacendo a tutti…a me no. E non è neanche uno di quei film che mi lasciano perplessa, in cui il giudizio è sospeso, è un mezzo si e un mezzo no. Ero fermamente convinta del no, all’uscita. Per me non basta che un film parli, attraverso una rappresentazione grottesca, del nostro paese, come tutti quelli a cui è piaciuto mi dicono. Un film deve convincermi anche e soprattutto per come parla di qualcosa, per come racconta una storia, quella storia. Altrimenti ci limiteremmo e leggere i soggetti, senza tanti sforzi ulteriori nel produrre un film. Ho visto nel film tutte le intenzioni, ma, il problema, è proprio quello. Mi piace vedere le intenzioni del regista, dello sceneggiatore, ma devo riuscire a vederle attraverso la realizzazione del film, devo vedere il compimento di quelle intenzioni, fattivo, nel film. Quando invece le intenzioni e le tecniche, e la messinscena, si vede sullo schermo più del suo esito, ecco, il film non riesce a piacermi, non mi convince, anzi, mi da fastidio. Come se, sulla scena, in teatro, recitassero anche le didascalie o le note di regia…capito il concetto? E poi c’è differenza tra grottesco e macchiettistico….
Pausa pranzo seduti (gran lusso) con una bella insalata
davanti insieme e Giuseppe, Federico e …un ometto, un personaggio, che gira
tutti i cinema, i teatri, gli eventi a Roma, e che ci siamo ritrovati anche
qui…e che tentava di attrarre ka nostra attenzione parlando dei palinsesti
delle proiezioni, del perché un film sia alle 1700 piuttosto che alle
1100…momenti di folklore! Dopo pranzo siamo andati a recupare un film di cui
già tanti ci parlavano bene, Wadjda. Si presentava già come un film evento,
essendo stato girato completamente, per la prima volta, in Arabia Saudita, e da
una donna. La storia di una bicicletta, di una conquista, della tenacia, della
perseveranza, dell’ostinazione di una ragazzina, che lotta per avere quello che
si è prefissata: una bellissima bicicletta verde. Che non è, in questo caso,
solo un oggetto, un capriccio. Perché la bicicletta non è un gioco ammesso per
le ragazze, perché per averla bisogna sfidare le convenzioni di una società in
cui non bisogna farsi vedere e sentire dagli uomini, se si è una donna, perché
“la voce di una donna è la sua nudità”.
Ma la cosa più bella del film è che questo racconto non viene fatto con
i toni del vittimismo. Un film semplice,
dove il racconto scorre naturalmente, dove tutto è al posto giusto, e la
scena finale, bellissima, è quello che dovrebbe essere: felicemente
prevedibile.
La mattina è partita con più calma, perché il primo appuntamento era l’incontro all’Excelsior di Schermi di qualità. Bello incontrare Cristina, Gianluca, Angela, ascoltare Gianni e gli altri interventi, e poi di corsa alla proiezione del film di Ciprì, è stato il figlio. So già che il mio giudizio non combacia con quello del resto del pubblico che era in sala e degli amici che lo hanno visto con me. Il film sta piacendo a tutti…a me no. E non è neanche uno di quei film che mi lasciano perplessa, in cui il giudizio è sospeso, è un mezzo si e un mezzo no. Ero fermamente convinta del no, all’uscita. Per me non basta che un film parli, attraverso una rappresentazione grottesca, del nostro paese, come tutti quelli a cui è piaciuto mi dicono. Un film deve convincermi anche e soprattutto per come parla di qualcosa, per come racconta una storia, quella storia. Altrimenti ci limiteremmo e leggere i soggetti, senza tanti sforzi ulteriori nel produrre un film. Ho visto nel film tutte le intenzioni, ma, il problema, è proprio quello. Mi piace vedere le intenzioni del regista, dello sceneggiatore, ma devo riuscire a vederle attraverso la realizzazione del film, devo vedere il compimento di quelle intenzioni, fattivo, nel film. Quando invece le intenzioni e le tecniche, e la messinscena, si vede sullo schermo più del suo esito, ecco, il film non riesce a piacermi, non mi convince, anzi, mi da fastidio. Come se, sulla scena, in teatro, recitassero anche le didascalie o le note di regia…capito il concetto? E poi c’è differenza tra grottesco e macchiettistico….

Poi mi sono concessa un lusso incredibile: due ore di stacco,
in cui ho semplicemente chiacchierato di film, al Movievillage, davanti ad un
cappuccino. Ma al varco mi attendeva una
nuova proiezione. Fill the void, di Rama Burshtein. E un nuovo film che mi
trova in controtendenza rispetto al pubblico (o almeno a quello che era con me
alla sala Darsena). Il film mi è piaciuto, molto. Il pubblico accanto a me lo
ha fischiato, ed addirittura accolto con urla, buuu corali, oltre agli sbuffi
di impazienza che ho sentito durante la proiezione. La storia è ambientata in
una comunità di ebrei ortodossi, quelle in cui gli uomini hanno i boccoli ai
lati del viso, e cappelli che sembrano colbacchi, per capirci. Ma non voglio soffermarmi sulla trama, perché
quello che il film veramente indaga è il tentativo, in questa cultura nello
specifico, ma si potrebbe dirlo un tentativo universale, di capire, comunicare,
vivere, l’amore, e, nello specifico, quello che si declina nel rapporto tra
l’universo maschile e quello femminile. Sebbene i matrimoni siano combinati.
Sebbene si viva come se non vi possa essere altra strada e realizzazione che
nel matrimonio, specialmente per le donne.
E allora ci sono le bellissime scene
di dialogo tra i due protagonisti, nel momento in cui sanno che il loro
incontro è un incontro di approccio destinato ad un futuro ipotetico insieme:
le mani di lei, giovanissima, che impacciate, non sanno trovare una posizione,
lo sguardo meraviglioso di lui, che la guarda con un misto di desiderio,
pudore, dall’alto di una maggiore età ed
esperienza in cose d’amore. Raffinate le riprese, il gioco della messa a fuoco,
i canti inseriti come colonna sonora. Da vedere.
A domani con il resoconto di domenica, 5 film, il pranzo da
scarso, e la visione di Pierce Brosnan ad una distanza di 30 cm!!
sabato 1 settembre 2012
Venerdì 31 agosto: bottino di sei film...in differita!
La seconda giornata (venerdì) alla Mostra non poteva
iniziare nel migliore dei modi: un bellissimo film israeliano, Epilogue,di Amir Manor, un’opera prima,
che mi ha fatto versare fiume di lacrime
mattutine!!! Un film che mi ha
inevitabilmente riportato agli occhi e nel cuore Amour di Haneke, perché
protagonista, anche qui, una coppia di persone anziane, che si trovano a
confrontarsi e ad affrontare la difficoltà dell’essere “vecchi”, nel caso del film israeliano anche la
difficoltà economica nel tirare avanti, quella fisica degli acciacchi dell’età, ma soprattutto il peso
della fine dei sogni, delle illusioni, il confronto tra un’idea di società che
si è cercato di costruire e l’amaro confronto con quella che ci si trova
davanti. Commovente, profondo, con una regia sapiente che spia, scruta, compone
il quadro, segue la coppia nella suo cammino, scendendo nel profondo e fino in
fondo con movimenti di macchina che dicono anche qualcosa sulla storia.
Insomma, un’opera prima da tenere d’occhio.
Il secondo film della giornata Superstar. Un film sulla contemporanea concezione di notorietà, sull’essere famosi per 15 minuti, e il ruolo dei media, si, ma soprattutto del web. Un racconto che potremmo definire triste, grottesco, anche se il tono, lungo buona parte del film, è quello di commedia. Una commedia amara però, dove le risate sono più risate isteriche che contemplano qualcosa a cui assistiamo spesso e volentieri: la mitizzazione, con relativa beatificazione laica officiata dai social network, di qualcuno che di mitico non ha niente, se non il fatto di essere stato scelto, senza motivo alcuno, da un non meglio identificato popolo del web…e tutte le conseguenze che ne scaturiscono…le riflessioni sono tante, il film non è un capolavoro, ma si lascia guardare, ci sono alcuni momenti irresistibili, riesce a tenere fino alla fine spostando il baricentro man mano che procede nel racconto. E poi va detto, c’è Cecile De France che è di una bellezza straordinaria, e i suoi primi piani varrebbero il film!
Il secondo film della giornata Superstar. Un film sulla contemporanea concezione di notorietà, sull’essere famosi per 15 minuti, e il ruolo dei media, si, ma soprattutto del web. Un racconto che potremmo definire triste, grottesco, anche se il tono, lungo buona parte del film, è quello di commedia. Una commedia amara però, dove le risate sono più risate isteriche che contemplano qualcosa a cui assistiamo spesso e volentieri: la mitizzazione, con relativa beatificazione laica officiata dai social network, di qualcuno che di mitico non ha niente, se non il fatto di essere stato scelto, senza motivo alcuno, da un non meglio identificato popolo del web…e tutte le conseguenze che ne scaturiscono…le riflessioni sono tante, il film non è un capolavoro, ma si lascia guardare, ci sono alcuni momenti irresistibili, riesce a tenere fino alla fine spostando il baricentro man mano che procede nel racconto. E poi va detto, c’è Cecile De France che è di una bellezza straordinaria, e i suoi primi piani varrebbero il film!
Terzo film: La città ideale, di Luigi Lo Cascio. NI. Nel senso che non mi è dispiaciuto del tutto ma non mi ha entusiasmato, ma, soprattutto, ha provocato in me un effetto che il cinema non dovrebbe mai provocare: mi ha fatto guardare l’orologio, il che vuol dire che ad un certo punto non ne potevo più! Mi perdonerà Rosanna, ma l’ho trovato un film un po’ verboso, e molto, molto, molto incentrato sul ruolo che Lo Cascio si è ormai ritagliato per se, a prescindere da quale film faccia. Quello di un uomo irrisolto, problematico, nevrotico, che analizza, sé stesso, il mondo, ogni piccolo gesto. E per questo suo modo d’essere si scontra con il resto del mondo. Un po’ retorico anche il discorso sottinteso sulla giustizia…NI.
E poi è stata la volta di Queen of Montreuil. 87’ spassosi minuti con una foca, una sessantenne che rincorre un abito da sposa rosa e maneggi a una gru, un lutto da elaborare ospitando due estranei ed una foca in casa propria. Leggero, senza grosse pretese, ma piacevole.
Doppia serata, con due film: At any price e Paradise:Faith.
At any price non mi è piaciuto.
Scontato, calca un po’ la mano su tanti stereotipate rappresentazioni di una
certa America, con uno Zac Efron che non riesce a spettinarsi neanche quando si
toglie il caso, o tira un vento tipo
bora! Il figliol prodigo, tutti duri e puri (neanche tanto), e i sogni
infranti contro un albero (guarda caso, in uno sterminato campo di granturco, è
riuscito proprio a prendere quell’unico albero!!). Insomma, non mi è piaciuto
il tema, il modo in cui è stato scritto e raccontato per immagini. Si era
capito? Da perdere. Inutile.
Paradise: Faith. Un film difficile, un film non per tutti, ma
che segue coerentemente il numero uno della trilogia, Paradise:love, visto e
apprezzato a Cannes. Camera fissa, la capacità di raccontare “asetticamente”
quanto si ha davanti, qualunque cosa essa sia. E non è un caso che sia la protagonista del
primo film che quella del secondo siano infermiere, assistenti socio-sanitari. Persone
che dovrebbero curare sé stesse, pima
degli altri, per le aberrazioni, pur
diverse, in cui sfogano la propria
infelicità, la propria frustrazione. Un film che esaspera, perché reitera, perché
racconta l’ossessione, quella della sequela di militante di Cristo, a caccia di
persone da convertire, portando con sé, di porta in porta, una statua della
Madonna. Ma, come nel primo caso quello non era amore, qui non ci troviamo di
fronte alla fede, ma ad una sua estremizzazione, in una forma di fanatismo che
esclude sempre di più questa donna, già profondamente sola. Un film al limite del grottesco, in alcune
scene, con il dubbio (in Angelo) che non
siano plausibili le aberrazioni raccontate,
dubbio instillato da una ragione che non contempla un simile grado di
perversione declinata nella fede. Da vedere, un film per riflettere, ma anche
un film che racconta con precisione le
scelte stilistiche del regista, la sua poetica. Quello che dovrebbe sempre fare
il cinema. In un percorso, in questo caso, con tre tappe, di cui non vedo l’ora
di poter vedere la terza.
Come vedete, sono un po' in ritardo sulla tabella di marcia...ma trascorrendo tutto il giorno in sala il ritardo si accumula e la notte condetemi almeno 4 ore di sonno!
Per sabato solo tre film: ma due sono tre mi sono piaciuti, e non è male come media! A domani!
giovedì 30 agosto 2012
Venezia2012....FarneseCinemaLab c'è!

Un buon inizio, come incontro, no? Dopo una breve sosta per il pranzo (15 minuti...quando dico breve è breve!), ma piacevolmente consumata con questa vista, è stata la volta del film di Ivano De Matteo, Gli equilibristi.

E poi....ecco che arriva il film preferito della giornata: un russo...e come ti sbagli? Betrayal, di Kiril Serebrennikov....fotografia strepitosa, i colori degli abiti (ma anche alcune atmosfere) da La donna che visse due volte, le inquadrature sghembe, e poi le pareti su cui si infrange e si moltiplica, si spezzetta, si frantuma la luce, il colore, ma anche gli animi e i corpi di coloro che camminano, scendendo verso il basso, il profondo, più cupo, più vero, più doloroso di sè stessi. E questa discesa sembra non aver termine, e l'ellisse del tempo viene raccontata con un cambio d'abiti in scena che spiazza lo spettatore, se è vero che dopo la proiezione ho sentito commenti di persone che ancora si interrogavano sul significato di quella scena!Insomma, da vedere!
La serata si è poi conclusa con un film non propriamente adatto per un dopo cena: The iceman (che non ha niente a che fare con Otzi di Bolzano!). La storia, vera, di un killer, un sicario, con una famigliola felice che non sospetta minimamente di avere in casa un tale personaggio. Un film di violenza,di morte, recitato molto bene da un grande Micheal Shannon, ben diretto, ma che non mi entusiasma. Sicuramente impressiona sapere che è tutta realtà. Direi che per la prima serata è tutto, anche perchè se non vado a dormire difficilemente riuscirò a vedere altri film domani!
giovedì 24 maggio 2012
Sesto giorno a Cannes: in differita da Roma!
Dopo questa prova di resistenza, una breve pausa di 30 minuti, in cui ho avuto la divertente esperienza di ascoltare un musicista di strada, un violinista, che su Rue d'Antibes, una strada piena di eleganti vetrine, diffondeva le note di "Oh campagnola bella....": mi sono sentita a casa, l'Abruzzo in fiore anche a Cannes! E poi di nuovo in Sala Lumière a vedere l'ultimo film prima di partire: Holy Motors di Carax. Che dire? Non potevo concludere meglio. Io che scrivo durante i film, ho consumato mezzo taccuino! Surrealtà allo stato puro, un film che riesce a sorprendere, a divertire, a spiazzare, con grande maestria, rappresentando una sorta di summa di tanti temi, film, storie, anche presenti a Cannes. Si parte con la ripresa di una pubblico, in una sala cinematografica, come nella scena iniziale del film di Haneke (anche se lì eravamo in un auditorium). Ma qui abbiamo visto in precedenza cosa stanno guardando gli spettatori: un'immagine che ritroveremo alla fine di questo slalom speciale, fatto di rimandi, di situazioni, di rappresentazioni cinematografiche, di ironia all'ennesima potenza. E poi, come in Resnais, il teatro, la finzione, il camerino mobile. E via attraverso i set che ci vengono proposti, in incastri che ci conducono sulla soglia della comprensione, senza farcela mai afferrare davvero, strappandoci di mano le certezze e le verità di un nostro tentativo di inquadramento di una materia che si trasforma continuamente davanti ai nostri occhi. Con risultati sorprendenti. Sento già i commenti della mia amica Rosanna, quando e se vedrà il film, sulla sua incomprensibilità, ma, come le dico sempre, io adoro l'arte che suscita domande, curiosità, che ti fa lambiccare il cervello, lo stimola, ma non dà necessariamente risposte. E allora formiamo un corteo che segue non il pifferaio magico, ma un manipolo di suonatori di fisarmonica, prenotiamo un soggiorno nella clinica Samaritaine, seguiamo l'uomo con la maschera da uomo ragno, lasciamoci trasportare dalle note di "Who where we..." cantata da Jean...e quando "the end is near..", sbrighiamoci, perchè "dobbiamo ridere prima di mezzanotte. Chissà se rideremo nella prossima vita". Perchè "We would like to live again", ma nell'attesa, parcheggiamo alla Holy Motors!
martedì 22 maggio 2012
Sesto giorno da Cannes: è tornato il sole!
Le foto parlano da sole…una
porzione di cous cous au poisson e un tortino al cioccolato fondente con cuore
di pistacchio, arancia candita e mandorle tostate da premio!
Ma soprattutto,
dopo cinque giorni di pioggia, finalmente è tornato il sereno, regalandomi la
luce che vedete nelle foto, scattate a
Juan Les Pins verso le 2030….che meraviglia questi luoghi! Il resoconto finale,
con tanto di considerazioni e mia personale assegnazione di palme è rimandato a
domani...
lunedì 21 maggio 2012
Quinto giorno da Cannes: e non avete ancora visto niente!
Il discorso sulla morte continua
se la mattinata si è aperta con Orfeo ed Euridice. La loro storia messa in
scena all’interno di una messa in scena all’interno di un’altra messa in scena
che è il film di Resnais, myse en abime, come diciamo noi a Cannes!…e tutto
comincia con la riunione di un gruppo di attori che interpretano sé stessi,e
che vengono convocati alla morte del drammaturgo che ha scritto un’Euridice, da
loro messa in scena in momenti diversi. Moltiplicazione dei piani, della
recitazione, così come avviene all’inizio del film, quando la notizia viene
data al telefono ad uno ad uno degli attori, che quindi si presentano in una
sorta di titolo di testa recitato. Ad un certo punto (siamo all’inizio), lo
spettatore pensa : ma deve proprio
farceli vedere tutti? E poi capisce che sì, è necessario, perché quello che
conta per il regista è la messa in scena, non la storia in sé…colpi di teatro,
colpi di scena finali che hanno colto di sorpresa gli spettatori della sala
Lumiere, costretti a vedere l’epilogo
del film in piedi sulle scale, perché si
erano alzati poco prima convinti che il film fosse finito lì (è vero che ai festival
si corre da una sala all’altra, ma succede anche in sale di normale programmazione
e mi chiedo sempre se abbiamo lasciato la fiamma del gas accesa)…e invece no,
come dice il titolo del film, ancora non avete visto niente!!! Un film teatrale, una rappresentazione teatrale vera e
propria, ma con la possibilità del doppio cast, anzi triplo, in scena
contemporaneamente. Materiale prelibato per i gourmet del teatro, difficile da
digerire per chi non lo ama…un film non da tutti. E poi la potenza, anche qui,
di questo intreccio Amore e Morte, Morte che, come dice Amalric, suo
messaggero, non è dolorosa, doloroso è ciò che rimane infine della vita, perché
la morte in sé è dolce, è rapida. Un
Amalric sempre splendido, così come Piccoli e tutto il resto del cast. Insomma,
come dire, Resnais…nei suoi film riesco sempre a intravedere il suo divertimento,
il gusto che con molte probabilità ha sperimentato nel realizzarli. Chapeau! Dopo
questa dose di teatro a colazione, un tuffo nella realtà più drammatica. Un
film senegalese, La piroga, che racconta il disperato viaggio in piroga di un
gruppo di 30 tra senegalesi e guineani, alla ricerca di una speranza di vita in
Spagna. In valigia, la disperazione, il non aver nulla da perdere, se non la
vita, come accadrà a molti di loro. Ma il racconto è interessante perché mostra
le dinamiche che si creano in questo eterogeneo gruppo di persone, ognuno con
la sua storia, il suo scopo, la sua lingua, le sue abitudini, in una convivenza così difficile come
quella di una piroga in mezzo all’Oceano.
Un racconto drammatico, senza aggiunte se non quelle drammatiche della realtà
stessa che raccontano. Senza punte di pregio, da un punto di vista
squisitamente formale, senza particolari difetti. E il viaggio continua con The Hunt. Sono rimasta due ore avvinta
allo schermo. Ma il colpo di fulmine c’era stato già alla prima scena. Quella
di un bagno autunnale in un lago gelido, all’apertura della stagione della
caccia. La camera, nei momenti in cui racconta l’amicizia, la goliardia di
questo gruppo di uomini, volteggia irrequieta da un volto all’altro, da una
bottiglia all’altra, mentre cantano (il canto ritorna, come nelle giornate
precedenti, segno di appartenenza , di memorie condivise) ….per farci entrare
in quel clima, in quell’atmosfera, sui cui possi si innesterà, o meglio, cadrà
come un fulmine, la vicenda del film. Un presunto abuso su una bambina. Presunto.
Ma lo spettatore sa che cosa è accaduto veramente, e questa conoscenza,
rispetto ai protagonisti, è quella che fa la differenza. Perché ci porta a
pensare da un altro punto di vista, a vedere la vicenda come solo l’accusato
può vederla. Un film che indaga nel profondo l’amicizia, il giudizio, la verità
e la convinzione di possederla, e in massimo grado, il sospetto. Perché una
volta insinuato, non basta un giudice, una sentenza, a chiarire il tutto. Il
dubbio resta e come un’ombra, spara su Lucas, non colpendolo, come una sentenza
definitiva, ma facendolo cadere comunque a terra, instabile. Perché il sospetto
mina alla radice la possibilità dei legami, dei rapporti umani, andando a
colpire la fiducia. Svanita quella, è come costruire una casa sulla sabbia. Una
ricerca molto accurata delle immagini, l’inquadratura dal basso a raccontare lo
sguardo di Klara, della bambina, un cane che abbaia se si pronuncia il nome
della ex-moglie di Lucas, un bellissimo bosco autunnale…insomma, un film mozzafiato.
Da vedere assolutamente. La mia corsa contro il tempo non è servita a vedere
Lawrence anyway, perché i posti erano esauriti, e allora piano B. Prima un film
iraniano, dal quale sono uscita dopo circa 25 secondi….poi un film la cui
locandina mi aveva molto incuriosito lo scorso anno qui a Cannes, e cioè I,
Anna di Southcombe. Il film non è un capolavoro, ma è gradevole, un thriller,
possiamo dire, che si fa guardare con piacere. Ma soprattutto c’è Charlotte Rampling.
Quando la vedo sullo schermo rimango sempre incantata, con un tocco di sana
invidia per la sua classe, la sua bellezza, la sua eleganza naturale. Lo scorso anno, sul Red Carpet, con uno smoking
da donna, ed un semplice filo di perle, ma soprattutto con la naturalezza dei
movimenti, l’affabilità, era la donna più bella ed elegante, nonostante il
luccichio e la preziosità degli abiti delle altre. Bella
la canzone iniziale e finale del film, “Cry a tear for the man in the moon”. La
serata si è poi conclusa con il quinto film della giornata, e cioè l’iraniano
Private life of Mr. And Mrs. M. Che dire: da non far vedere alle coppie che
stanno per sposarsi. Su un pretesto di una promozione lavorativa, un film
verboso, quasi fastidioso in questo, sul rapporto tra un marito ed una moglie,
che nonostante il parlare continuo, uno sull’altro, non riescono a comunicare.
A più riprese avrei voluto urlare di smetterla!!! Ma i due protagonisti non
avrebbero ascoltato il mio grido d’aiuto, continuando il loro vociare isterico.
Un film sull’incomunicabilità. Ma girato in un modo un po’ artigianale. Non so se
fosse la copia rovinata, c’erano delle sovraesposizioni di luce, o dei passaggi
così continui dal chiaro allo scuro e viceversa, insomma…si può anche perdere. Nessuna
foto, oggi, sia per la pioggia che per il fatto di essere stata quasi sempre in
sala…speriamo nel sole del domani!!
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